
Nel baseball -forse più che in altre discipline- la salute di un movimento sportivo o, al contrario, le sue patologie saltano alla vista sul campo. Chiunque abbia praticato il baseball in Italia si è imbattuto più di una volta sin da bambino in situazioni limite, soprattutto (ma non solo) nelle regioni periferiche del nostro sport: partite giocate su campi di calcio adattati, strutture fatiscenti, arbitri che non si presentano in campo… Tutto questo, mi dicono, è in gran parte un ricordo del passato. Non ne sarei così sicuro, ma sono comunque difficoltà che dirigenti, tecnici e giocatori hanno sempre affrontato con entusiasmo e persino con eroismo, gettando il cuore oltre l'ostacolo per avanzare verso un orizzonte, quello della crescita del movimento, che dava un senso agli sforzi di singoli e società.
Fra tutti, il sintomo che più fa stringere il cuore è quello delle panchine corte. Società con pochi cartellinati costrette a scendere in campo con i giocatori contati. Nelle realtà dove il baseball fatica ad affermarsi accade a volte di veder scendere in campo squadre di soli nove giocatori, magari chiamati affannosamente all'ultimo momento con una telefonata ("Per favore, siamo solo in otto, ti passo a prendere a casa…"). Alzi la mano chi non ha mai vissuto situazioni di questo tipo nelle giovanili o in serie C.
Oggi quel sintomo della povertà, della difficoltà strutturali del nostro baseball, ha fatto la sua comparsa nel massimo campionato. Mentre sto scrivendo, solo tredici giocatori del Nettuno City sono in viaggio verso Sesto Fiorentino per giocare contro il Padule le due partite previste per oggi dal calendario di A1.
Certo, si dirà, ma questa è un'altra storia: si tratta di un episodio frutto della lunga saga fratricida a cui da anni si assiste in riva al Tirreno, una fra le tante conseguenze di una situazione che ha una dimensione locale fatta di dissesti societari, problemi di sponsor, giocatori che non rispondono alla convocazione… E si sta comunque lavorando per scongiurare il possibile ritiro del City dalla A1, un ritiro che farebbe seguito a quello disastroso del Paternò dalla A2. Sarà pure così, si potrà anche trovare un palliativo e dare un po' di ossigeno al malato, ma rimane il fatto che oggi su quei tredici giocatori del City grava il peso di dover puntellare la facciata della credibilità non solo della loro società, ma di tutto un campionato che dovrebbe essere la vetrina del baseball italiano.
Stasera a Sesto i giocatori del dugout degli ospiti semivuoto si specchieranno in quelle tribune quasi deserte a cui da tempo abbiamo fatto il callo. Che si verifichi o meno il ritiro del City, è urgente immaginare e porre rapidamente in essere soluzioni e riforme radicali del nostro baseball che ne garantiscano la sopravvivenza. Soluzioni, come quella prospettata da Ruggero Bagialemani in questo sito (Baseball italiano, sempre peggio… ), che passano necessariamente per l'autocritica e il ridimensionamento a beneficio dell'interesse collettivo del movimento.
Oggi, con la coscienza di essere rimasti in pochi, di avere ormai una panchina cortissima e di dover giocare due partite in poche ore, i tredici giocatori del City a Sesto sono la metafora del nostro baseball.
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