Wrigley Field: un’isola di grande e pacifico baseball

Sabato abbiamo visto per voi Cubs-Phillies. La squadra di Chicago domina sul campo e trasmette buone vibrazioni sugli spalti. Qui si respira comunque un'atmosfera d'altri tempi

Chicago è una città spaccata in due. Al sud c'è l'US Cellular Field, lo stadio dei White Sox che tutti chiamano ancora col nome tradizionale di Cominsky Park, in quella che è la zona operaia della città. E i tifosi dei White Sox sono noti per essere fra i più agguerriti della American League. Nella zona nord, invece, una volta oltrepassato il downtown fatto di grattacieli mozzafiato, c'è lo storico stadio dei Cubs, Wrigley Field, immerso in un quartiere di classe media molto bello, fatto di casette fine Ottocento-primi del Novecento. E anche lo stadio è di quell'epoca: costruito nel 1915 per ospitare i Chicago Whales della Federal League (una terza Major League che durò appena due anni), già nel 1916 il Wrigley Field ospitò i Cubs, squadra che nella sua storia ha vinto due sole World Series (1907 e 1908) e il cui ultimo pennant della National League risale al 1945. I Cubs si sono dunque fatti la fama dei "lovable loosers", i simpatici perdenti, anche perché bersagliati dal destino sotto forma di varie maledizioni di cui abbiamo già parlato in passato (vedere l'articolo correlato qui accanto).
Qui si respira comunque un'atmosfera d'altri tempi. È come se a tutti i costi si siano volute cristallizzare le tradizioni del national pastime. Non a caso il Wrigley Field è stato l'ultimo campo di MLB a impiantare le luci per le notturne (fino alla fine degli anni '80 vi si poteva giocare solo di giorno). Intorno allo stadio fioriscono le statue che ricordano gli eroi dei Cubs. Quella più fotografata è l'immagine in bronzo colorato di Ernie Banks, mitico interbase di colore degli anni '50 e '60, un grande che se avesse militato in un'altra squadra avrebbe sicuramente vinto moltissimo. Mi dicono che era una persona dal grande entusiasmo, un vero animatore dello spogliatoio che all'inizio di ogni partita gridava: "Let's play two!", ossia: "Non giochiamo una partita, giochiamone due!". E questo è il motto che si legge sul piedistallo della statua. Al suo funerale – Bancks è morto l'anno scorso- il presidente Obama, molto legato a Chicago (città dove ha iniziato l'attività politica e presso la cui Università ha insegnato), gli ha dedicato un discorso commovente che tutti ricordano.
Sui marcipiedi varie targhe ricordano i nomi dei Cubs entrati nella Hall of Fame: vediamo quella di Mordecai "Three Finger" Brown, il pitcher di un secolo fa a cui mancavano due dita e che per questo era insuperabile con la curva; o quella di Andy Pafko, l'esterno che nel 1951 giocando con i Giants assistette impotente al fuoricampo di Bobby Thompson (anche di quest'episodio, ricordato in Underworld di Don DeLillo abbiamo parlato in passato).
Le case circostanti sono praticamente attaccate allo stadio, appena sull'altro lato della strada. Ricordo tanti anni fa di aver letto di un mattacchione che si piazzava con una radiolina e un guantone nella via oltre la recinzione del fuoricampo e si spostava a destra o a sinistra a seconda se il battitore era destro o mancino. In caso di battuta, appena capiva dalla voce del radiocronista che la pallina avrebbe potuto oltrepassare gli spalti, si fiondava a prendere al volo l'homerun. Aveva così collezionato decine e decine di palline dei fuoricampi di quegli anni, ma era stato investito anche due volte da macchine che non erano riuscite a frenare in tempo o a evitarlo.
Molti abitanti del quartiere, poi, hanno approfittato della presenza dello stadio per costruire delle vere e proprie tribune sui tetti dei palazzi più limitrofi più alti e hanno persino costituito una società (Wrigleyroofs.com) che vende i biglietti per vedere le partite da lassù. Non solo: i proprietari delle casette delle vie adiacenti affittano ai tifosi i posti macchina nei loro garage. Li vedi sui marciapiedi con dei cartelli in mano che indicano i prezzi di quelli che comunque sono parcheggi abusivi. Sarà pure un'iniziativa spontanea e quantomeno "a-legale" che fa tanto mercatino mediterraneo, ma è comunque comodissima: per 30 dollari parcheggiamo l'auto con cui siamo arrivati dal Michigan.
L'atmosfera è festiva. Lo stadio è strapieno (alla fine gli spettatori, secondo il tabellone, saranno 41.555) e nella marea azzurra di maglie e cappellini dei Cubs spuntano incredibilmente alcune maglie rosse dei Phillies e persino quelle bianconere dei White Sox, senza che ci sia una rissa o anche solo una discussione fra tifosi. Io ho in testa il mio cappellino di Detroit e nessuno mi guarda storto. Sono proprio dei paciocconi questi supporters dei Cubs. Trasmettono decisamente delle buone vibrazioni, good vibes, come si diceva una volta.
Eppure qualche problemino lo notiamo. La partita sta filando via liscia per la squadra di casa, che domina senza affanni. Sul mound Hendricks (fastball sulle 91 miglia e frequenti lanci offspeed) permette ai Phillies solo una volta di raggiungere la seconda (un doppio di Rupp al settimo) e una volta la terza (Galvis al nono, che arriva salvo per un'incomprensione fra esterno destro e prima base su un texas leaguer). Una curiosità: i Phillies schierano il loro lanciatore all'ottavo invece che al nono posto del line-up, cosa insolita (ricordiamo che nella National League non c'è il battitore designato). Per i Cubs in attacco tutto bene sin dall'inizio: il leadoff Fowler batte un fuoricampo a sinistra sul terzo lancio della partita, e con sei hits nei primi due innings i Cubs si portano sul 3-0 e amministrano il risultato. Non male, anche se il "nostro" Anthony Rizzo, quarto in battuta, chiuderà con 0 hit su tre turni.
Noi siamo seduti in alto a sinistra, all'altezza del muro del fuoricampo (sono i posti più economici lungo le linee di foul, 35 dollari a cranio), e davanti a noi c'è un signore con il cappello dei Phillies che apparentemente senza motivo comincia a sbraitare ad alta voce contro il presidente Obama: "È il peggior presidente della notra storia! Qualcuno dovrebbe pensare a sparargli! Reagan: quello sì era un grande! Vedrete che Trump aggiusterà questo Paese!". E ogni volta che un giocatore nero dei Cubs si presenta al piatto, comincia a sbuffare e ringhiare: "Ecco un altro imbecille in battuta!".
Gli spettatori intorno a noi -alcuni di loro di colore- sembrano non sentire. Nessuno approva, è evidente: Obama qui è di casa, e il provocatore repubblicano lo sa perfettamente, ma nessuno abbocca all'amo. Ho sempre avuto l'impressione che il basseball sia (o voglia presentarsi come) un'isola felice all'interno della società americana. Speriamo che i veleni sparsi dalla destra reazionaria e in questo momento incarnati da Donald Trump non avvelenino anche il baseball dopo aver contagiato parte della popolazione. Almeno per ora le good vibes dei tifosi di Chicago hanno isolato e annullato la provocazione.
La partita finisce 4-1 per i Cubs. Tutti in piedi a cantare Let's Go Cubs canzone che -mi dicono- da due anni a questa parte fanno risuonare dagli altoparlanti dello stadio dopo ogni vittoria. E quest'anno ce ne saranno molte di vittorie, a quanto sembra. La folla abbandona Wrigley Field sulle note di Sweet Home Chicago. Alcune macchine in strada hanno in bella mostra degli adesivi di appoggio a Bernie Sanders. Sorridiamo: questo Paese può ancora salvarsi.

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Un vita spezzata in tre: venticinque anni a Roma (lanciatore e ricevitore in serie C), venticinque anni in Spagna (con il Sant Andreu, il Barcelona e il Sabadell, squadra di cui è stato anche tecnico, e come docente di Letteratura Comparata presso le università Autónoma de Barcelona e Extremadura), per approdare poi in terra umbra (come professore associato di Letteratura Spagnola presso l'Università di Perugia). Due grandi passioni: il baseball e la letteratura (se avesse scelto il calcio e l'odontoiatria adesso sarebbe ricco, ma è molto meglio così...).

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