L'ultima memorabile partita… (terza parte)

In esclusiva per tutti i nostri lettori un racconto di Devor De Pascalis in 4 puntate ambientato nel mondo del baseball, tra Roma e Nettuno. Con i migliori auguri di Buone Feste da Baseball.it che nel 2013 festeggerà i suoi primi 15 anni

"Se la gente non vuole venire allo stadio, nessuno la fermerà" – Yogi Berra

Roma era una città fantasma. La Duna l'attraversò ancora una volta, bruciando le ultime gocce di benzina. Arrivarono al campo di via Galba che il sole era allo zenit. Ad aspettarli trovarono Sandrone e Fidel con i fratelli Garzia e il professore. Dio solo sapeva come erano riusciti a convincerli. I Garzia avevano persino raccattato un amico, appassionato di fantabaseball, disposto a fare da arbitro. Insomma, i Garbatella Peanuts erano pronti a giocare la finale. «Ma… i Dominicani?» chiese Giuliano.

«Saranno qui a momenti. Ortiz mi ha dato la sua parola che sarebbero venuti», rispose Paolo con un sorriso affettato ed eccessivo che insospettì Giuliano. «Tu non ci hai parlato con Ortiz, vero?» «Gli ho lasciato un messaggio in segreteria, è la stessa cosa.» «No che non lo è, cazzo!» «Lo sai come fanno quelli, non sono mai puntuali» arrancò Paolo. «Adesso chi glielo dice agli altri che li abbiamo portati fin qui per niente?» chiese Giuliano, alzando la voce, tanto che Sandrone captò qualche parola e volle chiarimenti. «Insomma, ragazzi, ma ‘sti Dominicani?»

Paolo, spalle al muro, finì per confessare: lui a Ortiz aveva lasciato orario e indirizzo, ma una risposta vera e propria non l'aveva mai ricevuta. «Quindi non è vero che si gioca» esplose Sandrone. Aveva rinunciato alla parmigiana di sua moglie e Paolo lo aveva trascinato su un campo da baseball senza nessun motivo. «Ma che cazzo c'hai, in testa?» ringhiò.

Anche gli altri giocatori dissero la loro e il succo fu che un conto era morire giocando l'ultima partita di baseball di tutti tempi, un altro era morire aspettando qualcuno che non sarebbe mai arrivato. Avviliti, cominciarono quindi a raccogliere le proprie cose: sbrigandosi sarebbero potuti arrivare alle rispettive case in tempo per la diretta del TG1, che la fine del mondo in diretta viene sempre meglio. Giuliano mise la propria roba nel bagagliaio della Duna, assieme a quella degli altri. Li fece salire. Poi si voltò verso il cugino: «Se vuoi ti porto a Fregene, sei ancora in tempo per la braciolata». «Non hai abbastanza benzina. E poi preferisco restare qui.» Giuliano annuì, avviò il motore e se ne andò.

L'allenatore dei Peanuts rimase solo sul monte di lancio. Si guardò attorno: quel campo l'aveva costruito con le sue mani, da ragazzo, e, se si escludeva la sua famiglia, era l'unico segno tangibile del suo passaggio sulla Terra. Non gli veniva in mente un posto migliore dove aspettare la fine. Però, possibile che tutto quello che aveva fatto nella vita si riassumesse nel nascere, crescere, invecchiare e morire a causa di uno stupido asteroide, o quello che era? A guardare quel campo da baseball abbandonato, pareva di sì.

Vide una pallina a terra. La raccolse e la osservò. Aveva letto da qualche parte che le cucivano ancora a mano, quelle palle, una per una, delle operaie sottopagate di una fabbrica in Messico. Se la girò tra le dita: era perfetta, tonda come il pianeta su cui era nato e che stava per scomparire. La strinse forte e la scagliò verso la casa base con tutta la forza che aveva in corpo.

La pallina sorvolò il piatto a mezza altezza – anche il più pignolo degli arbitri, quel lancio l'avrebbe chiamato uno strike – poi toccò terra e rotolò a fondo campo. Una mano bruna la raccolse. Era quella di Ramon Ortiz, che avanzava circondato dai suoi. I Dominicani erano arrivati. Dietro di loro Sandrone, Fidel, Giuliano e tutti gli altri, che evidentemente li avevano visti arrivare e avevano fatto marcia indietro.

"Diventa tardi presto, là fuori" – Yogi Berra

I Garbatella Peanuts si fecero intorno a Paolo. Sandrone parlò per tutti. «Ci dispiace di non avere avuto fiducia in te. È che siamo parecchio nervosi… per la partita, s'intende!» «L'importante è scendere in campo concentrati e vincere» rispose Paolo. I Dominicani sembravano alticci, biascicavano battute sconce e barcollavano come futuri sposi all'addio al celibato. Dovevano aver passato le ultime ore a bere rhum. «In quelle condizioni non sarà difficile batterli» osservò Takeshi. «I Dominicani giocano meglio quando sono ubriachi» rispose Fidel. E Takeshi, cosa intendesse il cubano, lo capì già al primo inning, quando quelli cominciarono a colpire duro i lanci super lenti di Sandrone.

Alla fine del terzo inning il punteggio era 5 a 0 per i caraibici. Paolo fremeva. A ogni bordata dei Dominicani si mangiava mezzo etto di unghie. Avrebbe volentieri cambiato il lanciatore con uno meno ansioso, ma la panchina dei Peanuts, più che corta, era vuota. Chiese time out e raggiunse Sandrone sul monte di lancio. «Che cazzo ti piglia?» domandò. L'omone abbassò lo sguardo. «È l'ultima partita della mia vita e sono nervoso come se fosse la prima» rispose. «Immagina che sia una partita come le altre e andrà tutto bene» gli disse Paolo, ma non vedendolo convinto, tagliò corto con le cazzate in allenatorese: «Ok, non andrà tutto bene, il mondo finirà e moriremo tutti, ma guarda quelli come la prendono bene.»

Sandrone lanciò un'occhiata alla panchina degli avversari. I maledetti Dominicani se ne stavano stravaccati a bere rhum e a darsi pacche sulle spalle, mentre uno stereo portatile sparava musica salsa a tutto volume. A vederli così tranquilli, avresti giurato fosse una domenica come le altre. «Prova a divertirti, per una volta» disse Paolo. Il coach ha ragione, pensò Sandrone. Doveva divertirsi anche lui.

Nei successivi inning, la squadra caraibica non riuscì a segnare neanche un punto. Grazie anche a Takeshi che fece tre giocate delle sue, a Franco e Gina che giocavano come fossero una persona sola e al professore che pareva aver miracolosamente colmato lo scarto tra teoria e pratica. In attacco ci pensarono Giuliano, che con un bel triplo nel settimo inning portò a casa entrambi i Garzia, e Fidel, che con un fuoricampo all'ottavo ridusse ulteriormente il margine con gli avversari.

All'inizio dell'ultima frazione di gioco i Garbatella Peanuts erano sotto di un solo punto. Ma a quel punto i Dominicani, che non avevano alcuna intenzione di perdere, portarono sul monte di lancio Jose Santiago. Fisico da cameriere di un'osteria di Testaccio, uno e settanta per un centinaio di chili, quando lanciava il dominicano si accartocciava come una molla, per poi scattare e tirare la palla a velocità fotoniche. I battitori se la vedevano arrivare addosso dal nulla e il più delle volte potevano solo girare la mazza e sperare nella buona sorte.

"Una partita non è finita finché non è finita" – Yogi Berra

Ora toccava ai Peanuts battere. Non avessero fatto punti, la partita sarebbe finita lì. Come tutto il resto, d'altronde. Paolo si voltò versò i suoi. Nella panchina serpeggiava la paura. Santiago non aveva un gran controllo del tiro e diverse volte gli era capitato di colpire l'avversario mandandolo in ospedale.

Takeshi andò a battere. Con pazienza tutta nipponica riuscì a strappare quattro ball al lanciatore dominicano, arrivando in prima base. Era un inizio, ma non bastava. Bisognava fare punti e Gina e Franco furono eliminati al piatto con tre lanci ciascuno. Apparentemente Santiago dominava la situazione, ma non era così. Anche Sandrone, infatti, riuscì a farsi mandare in base su ball. Corridori in prima e seconda, due out e sul piatto, per i Peanuts, c'era Fidel Hernandez. Il cubano era il miglior battitore della squadra e bastava una battuta valida per pareggiare la partita. La difesa dei Dominicani, conoscendo la potenza del cubano, fece diversi passi indietro. Fidel se ne accorse e, a sorpresa, al terzo lancio di Santiago fece una smorzata che lasciò tutti col fiato sospeso. Il difensore di terza base raccolse la pallina che gli veniva incontro lentamente e, dopo aver dato un'occhiata a Takeshi sul sacchetto, scagliò una cannonata al prima base. Non bastò: Fidel era salvo.

Purtroppo per i Peanuts, però, Takeshi era rimasto inchiodato al suo posto e non era entrato nessun punto. Basi piene e tutto da rifare. Punteggio ancora fermo sul 5 a 4. Paolo guardò suo cugino negli occhi. Giuliano annuì, si alzò, mise il caschetto, prese la mazza e si avvicinò al box di battuta. Santiago era nervoso. Sapeva di non essere in giornata, ma sapeva anche che non ce ne sarebbero state altre. Cercò di concentrarsi. Primo lancio: strike. Una palla velocissima che passò a pochi centimetri dal corpo di Giuliano. Secondo lancio: ancora più veloce e ancora più vicino. L'arbitro, però, lo decretò uno strike.

Santiago si era preso un bel vantaggio, Giuliano era nei guai. Sì voltò verso la panchina. Paolo lo guardò senza dire nulla. Lui annuì, come se si fossero contattati telepaticamente e, al terzo lancio, fece un passo in avanti. La palla di Santiago lo colpì sulla mano destra. Giuliano emise un urlo e cadde a terra, dolorante. Da regolamento, quando un lanciatore colpisce un battitore avversario, quello può automaticamente andare in prima base, dunque i Peanuts, grazie al sacrificio di Giuliano, aveva pareggiato la partita ma, mentre Sandrone e gli altri esultavano per il pareggio, Paolo capì che la partita si era complicata. Suo cugino, infatti, pareva davvero sofferente. Gli si avvicinò.

«Sei stato coraggioso» gli disse. «Credo che sia rotta». «Bisognerebbe metterci del ghiaccio.» «Non serve, manca sì e no mezz'ora al tramonto» disse. L'inning si concluse poco dopo. Il professore fu eliminato da Santiago con tre lanci e la partita andò agli inning supplementari. Il che era un problema, per due motivi: il primo era che la luce stava finendo e vedere la palla diventava sempre più difficile; il secondo era che la prospettiva di chiudere il match in parità – seppur causa apocalisse – non andava bene a nessuno.

Paolo, però, non pensava a queste cose. Era troppo spaventato dall'idea di dover scendere nuovamente in campo, dopo tanti anni. Tuttavia non c'era alternativa, Giuliano era KO e toccava a lui farlo. Fece la sua corsetta fino all'esterno sinistro simulando sicurezza, poi si guardò attorno. Tutto gli sembrava familiare e al contempo terribilmente minaccioso, persino la cicoria a fondo campo. Le gambe tremavano, aveva la vista annebbiata. Annusò il suo vecchio guantone per tranquillizzarsi e la cosa un po' funzionò, anche perché nell'inning successivo e in quello dopo ancora non gli arrivò nessuna palla. Ma per sua sfortuna la situazione rimase bloccata sul 5 a 5 e il suo turno di battuta si avvicinava.

Santiago e Sandrone si tenevano testa lancio dopo lancio, uno con le sue poderose bordate e l'altro con i suoi snervanti spioventi, ma il sole si abbassava a ogni secondo e il cielo era ormai una matassa nebulosa, cangiante e multicolore. Il fatto, poi, che le batterie dello stereo dei Dominicani si fossero esaurite aveva fatto calare sul campo un silenzio irreale. 

La cosa più strana di tutte, però, non era quell'atmosfera da incubo, né il fatto che al decimo inning i Peanuts fossero ancora in partita. No, la cosa più strana era che attorno al campo s'erano radunati molti abitanti del quartiere che, annoiati dalla diretta del TG1, erano usciti per guardare in faccia quei pazzi che avevano deciso di passare l'ultima giornata del mondo a giocare a baseball. All'undicesimo inning arrivò il momento per Paolo di andare a battere. Il punteggio era ancora 5 pari. Le basi erano vuote e, con due out, se Paolo si fosse fatto eliminare, c'era la possibilità di continuare a giocare a oltranza, ma bastava guardare il cielo cobalto per capire che non ce ne sarebbe stato il tempo.

(Fine terza parte)

Informazioni su Devor de Pascalis 20 Articoli
Devor de Pascalis è scrittore e sceneggiatore di cinema e TV. Nato a Roma nel 1976, si innamora perdutamente del baseball nell'inverno nel 1986 quando la mamma americana lo porta a trovare lo zio di Brooklyn, grande tifoso dei Dodgers (quelli di Pee Wee Reese e Roy Campanella, per intenderci). Tornato in Italia impara le regole del gioco grazie al Nintendo e a Bases Loaded 2, segue la MLB trafugando copie di USA Today dall'ambasciata americana, si invaghisce della protagonista dell'anime "Pat la ragazza del Baseball" e si mette a giocare nella Roma come "centro panchina". Sviluppa negli anni una passione malsana per le statistiche, che ritiene il personale rimedio al logorio della vita moderna, e tifa da sempre New York Mets perché non gli è mai piaciuto vincere facile. Ancora oggi ricopre con un certo successo il ruolo di "centro panchina" nella squadra amatoriale di softball del Green Hill.

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