The Southpaw: lo sguardo alternativo del mancino

Uno dei più bei romanzi mai scritti sul baseball, "The Southpaw" (1953) di Mark Harris, ci presenta la figura di Henry Wiggen, un pitcher mancino anticonformista che è il riflesso del radicalismo del suo autore

Se si facesse un'inchiesta fra i lettori per stabilire chi sia il miglior pitcher "letterario" dei romanzi sul baseball, il vincitore sarebbe probabilmente Henry Wiggen, l'indimenticabile figura di pitcher mancino protagonista di The Southpaw (1953) e Bang The Drum Slowly (1956) di Mark Harris, i primi due romanzi di una tetralogia che comprende anche A Ticket for a Seamstitch (1957) e It Looked Like Forever (1979).

The Southpaw in effetti è, assieme a The Natural (Il migliore) di Bernard Malamud (1952) il libro che imprime davvero una svolta al genere della baseball fiction facendola entrare -a partire dai primi anni Cinquanta- nella piena maturità. Varrà la pena, dunque, soffermarci sulla figura del Henry Wiggen, il lanciatore fittizio che in qualche modo è anche il riflesso del suo creatore, il geniale e controverso Mark Harris.

In inglese "southpaw" è un termine gergale (letteralmente la "zampa meridionale") che indica per l'appunto il mancino. È una parola nata proprio nell'ambito del baseball: se teniamo conto dell'orientamento abituale del diamante, con la casa base ubicata ad ovest per evitare che il battitore abbia il sole del pomeriggio negli occhi, il lanciatore mancino lancerà con il braccio che dà verso sud, cioè il sinistro. Il termine è poi passato ad indicare nella boxe il pugile che assume la guardia sinistra, indipendentemente dal fatto che egli sia un mancino naturale o meno.

Abbiamo già notato come Ring Lardner e John Fante nei loro romanzi si facciano eco del folklore che vede nei giocatori mancini (specie se lanciatori) degli inconformisti, dei tipi magari geniali ma bizzarri, visti a volte con diffidenza, altre volte con ammirazione dai compagni di squadra che sono "normalmente" destri. E il nostro Henry Wiggen, che in questo peculiarissimo romanzo ci narra la propria vita, dall'infanzia nell'immaginario paesino di Perkinsville all'ombra di suo padre -anch'egli pitcher, chiamato nel libro semplicemente Pop- e del suo vicino di casa, l'astronomo Aaron, fino all'approdo nelle Major Leagues e alla vittoria nelle World Series, si presenta spiegandoci subito questa sua eccezionale condizione tecnica ed esistenziale (la traduzione è del sottoscritto):

Si deve in parte ad Aaron il fatto che io sia un mancino. Pop voleva che diventassi destro. Non che Pop avesse qualcosa contro i mancini, visto che anche lui era mancino e aveva lanciato per molto tempo con i Perkinsville Scarlets. Ma Pop voleva che fossi destro perché a pensarci bene un giocatore mancino è come se partisse sin dall'inizio con due strike sul proprio conto. Anzitutto, come è noto, un mancino può giocare solo in cinque ruoli. Può lanciare o giocare in prima base o in uno dei tre posti da esterno. Ma non può fare il ricevitore o il seconda base o il terza base o l'interbase, almeno di solito. Mentre se sei destro puoi giocare dove vuoi. E poi, i pitcher mancini sono considerati persino una scommessa rischiosa, perché molti di loro sono un po' matti, e la maggior parte dei battitori sono destri, e si suppone che un lanciatore mancino sia in svantaggio nei confronti di un battitore destro. E così Pop voleva che cominciassi bene il mio cammino nella vita, e fece ciò che considerava giusto in quel momento, e non lo si può rimproverare per questo.

Ma niente di quanto facesse potè cambiarmi, e alla fine mi portò da Aaron -perché Pop crede ciecamente a tutto ciò che dice Aaron- e Aaron disse che non c'era nulla di male nell'essere mancini e che alcune delle migliori persone che conosceva erano mancine.

Insomma, l'essere mancino è condizione di alterità, e nel romanzo di Harris il mancino Henry Wiggen è portatore di una visione critica rispetto al modello di società a cui si ispira l'esasperato professionismo delle Major Leagues. Eccolo quindi crescere avendo come modello suo padre per poi entrare nel farm system dei Mammouths di New York (squadra fittizia chiaramente ispirata ai Giants) e passare un anno in Minor League a Queen City (una trasposizione letteraria di Denver) prima di esordire in prima squadra. Ciò che Henry vede nell'alta competizione contraddice lo spirito del gioco, il modello mitico di uno sport che dovrebbe esaltare i rapporti umani e che invece agisce da tritacarne nei confronti degli uomini e dei loro sogni. Ma il lettore capisce subito che il romanzo parla sì di baseball, ma sta in realtà mirando a qualcos'altro, ad un'analisi spietata della società e dei suoi valori: similmente a quanto fatto da Malamud l'anno precedente in The Natural, Harris usa il baseball come "metonimia dell'America" (è quanto fa notare Cordelia Candelaria nel suo fortunato saggio critico Seeking the Perfect Game. Baseball in American Literature, Greenwood Press, 1989).

A questo punto per capire il personaggio Henry Wiggen è impossibile non prendere in considerazione il profilo biografico e intellettuale di Mark Harris per scoprire il rapporto fra l'autore e la sua creatura letteraria.

Mark Harris si chiamava in realtà Mark Harris Filkenstein, ed era nato nel 1922 a Mount Vernon (New York) in una familia ebraica di umile condizione. A diciotto anni, nel clima di antisemitismo strisciante dell'epoca (e chi abbia letto Focus di Arthur Miller o The Plot Against America di Philip Roth sa di cosa parlo) decise di abbandonare il suo cognome decisamente "troppo" ebraico per evitare di essere discriminato nella ricerca di un lavoro. Chiamato alle armi nel 1943, poté osservare la logica repressiva del sistema gerarchico dell'esercito, un'istituzione dove il razzismo presente nella società veniva amplificato in ogni suo aspetto. Si dichiarò antimilitarista e contrario alla guerra che si era appena scatenata, giungendo a disertare dal centro di addestramento reclute di Camp Wheeler, in Georgia. Arrestato e internato in un ospedale psichiatrico, venne poi congedato e riabilitato nel 1944.

Sopravvivendo in pessime condizione economiche, con una moglie e un figlio piccolo a carico, Harris cominciò a scrivere per ogni tipo di giornali e riviste. La sua prima prova letteraria, il romanzo Trumpet To The World (1946), narra l'odissea di un soldato di colore che osa colpire un ufficiale bianco che lo aveva schiaffeggiato.

Ma è con The Southpaw che anni dopo Harris riuscì a raggiungere il successo, cosa davvero difficile in quei primi anni della Guerra Fredda in cui scrittori, intellettuali, giornalisti, attori, registi -per non parlare dei sindacalisti e degli attivisti politici- e chiunque fosse sospettato a ragione o a torto di "comunismo" veniva emarginato, quando non processato e condannato per attività anti-americane. Harris è insomma uno dei molti giovani scrittori ebrei (un nome per tutti: Norman Mailer) che in quegli anni mantennero vivi gli ideali radicali degli anni Trenta ed esercitarono una funzione di opposizione al conformismo imperante nel mainstream.

E in The Southpaw è quanto fa a suo modo il mancino Henry Wiggen, un pitcher che nel fondo non solo lancia con la sinistra, ma che osserva "da sinistra" e "dal basso" il mondo.

Tuttavia il libro, lungi dall'essere un pamphlet politico, è soprattutto un affascinante romanzo in cui il baseball offre davvero al lettore molte chiavi di interpretazione del mondo e della letteratura, spunti per riflessioni che svolgeremo nei nostri prossimi appuntamenti.

Informazioni su Luigi Giuliani 102 Articoli
Un vita spezzata in tre: venticinque anni a Roma (lanciatore e ricevitore in serie C), venticinque anni in Spagna (con il Sant Andreu, il Barcelona e il Sabadell, squadra di cui è stato anche tecnico, e come docente di Letteratura Comparata presso le università Autónoma de Barcelona e Extremadura), per approdare poi in terra umbra (come professore associato di Letteratura Spagnola presso l'Università di Perugia). Due grandi passioni: il baseball e la letteratura (se avesse scelto il calcio e l'odontoiatria adesso sarebbe ricco, ma è molto meglio così...).

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