Due comunità in campo: la guerra sul diamante

Due squadre rivali, due tradizioni nella stessa fede: il baseball diventa metafora bellica nel romanzo del 1967 "The Chosen" (tradotto in italiano dalla Garzanti nel 2007 come "Danny l'eletto") di Chaim Potok

Il baseball -la partita, le sue regole, la sua filosofia di vita- è stato evocato innumerevoli volte in romanzi, poesie, opere teatrali, film e usato come metafora o come metonimia, o (come abbiamo visto più volte) associato a motivi narrativi in genere legati al mondo agrario o al viaggio. Invece, nel romanzo The Chosen (1967, tradotto in italiano dalla Garzanti nel 2007 con il titolo Danny l'eletto) dello scrittore ebreo americano Chaim Potok, la partita di baseball viene presentata come uno scontro fra due fazioni rivali.

Siamo ai primi di giugno del 1944. Gli Alleati hanno ammassato centinaia di migliaia di uomini in Gran Bretagna e stanno preparando un'imponente schieramento di mezzi navali e aerei: lo sbarco in Normandia è imminente. Lontano, in America, la popolazione intuisce che si sta per verificare una svolta nella guerra, sa che molto presto i loro ragazzi spediti a combattere in Europa entreranno in azione. C'è incertezza, c'è paura, c'è orgoglio, e c'è anche la consapevolezza che molti di quei soldati non torneranno mai più a casa. Proprio oggi, 6 giugno -giorno del D-Day- a Brooklyn, i ragazzi della squadra di softball della yeshivah (la scuola ebraica) del quartiere di Crown Heights attendono su un campetto in cemento l'arrivo dei loro avversari in un torneo fra istituti superiori. Fa loro da allenatore l'insegnante di ginnastica, Mr. Galanter. A differenza di quei rabbini per i quali il baseball è solo una perdita di tempo e un pericoloso scimmiottamento delle abitudini del mainstream americano, Mr. Galanter crede nelle potenzialità educative del battiecorri: lo sport ti prepara alla vita, ma la vita è soprattutto scontro, e dunque, la partita è una battaglia contro un nemico e sul campo la squadra di baseball deve comportarsi come un esercito in guerra.

Se lo ricorda bene il protagonista e narratore in prima persona del romanzo, Reuven Malter, l'adolescente che riporta con precisione il linguaggio bellico dell'allenatore (la traduzione è del sottoscritto): All'inizio della partita il signor Galanter mi metteva sempre in seconda base e mi usava come pitcher solo nei momenti di difficoltà della squadra, perché, come disse una volta: "La mia filosofia del baseball si basa sulla solidarietà difensiva dei giocatori del campo interno". Quel pomeriggio dovevamo giocare contro i vincitori di un altro torneo del quartiere, una squadra tremendamente aggressiva alla battuta ma molto debole in difesa. Il signor Galanter voleva che il nostro campo interno agisse come un vero e proprio baluardo difensivo. Durante il riscaldamento, con solo la nostra squadra in campo, continuava a battere il pugno nella palma della mano sinistra e a gridare. "Non voglio buchi in difesa" gridava in piedi accanto alla casa base, "Mi senti, Goldberg? Non voglio buchi! Che razza di fronte è questo? Gioca più chiuso. Fra te e Malter potrebbe passarci una corazzata! Così va bene. Schwarts, che fai? Cerchi i paracadutisti? Questa è una partita di baseball, il nemico è sul terreno! Goldberg, quel tiro è fuori bersaglio! Devi sparare come un tiratore scelto! Tiragli di nuovo la palla. Bene, così: come un tiratore scelto. Tenete compatta la difesa. In questa guerra non voglio buchi in difesa!"

Ed ecco arrivare i giocatori della squadra avversaria. Vestiti neri, cappelli neri, lunghi riccioli neri sulle basette: sono ebrei chassidim, i "puri", gli ortodossi, i seguaci del rabbino Baal Shem Tov, fondatore della setta nel XVIII secolo. "Loro non giocano semplicemente per vincere. Giocano come se vincere fosse il primo dei Dieci Comandamenti". Scendono in campo guidati da un rabbino, ed è subito scontro con Mr. Galanter sulle regole di campo e su mille altre questioni. Fra di loro c'è Danny Saunders, figlio del rabbino capo della comunità chassid. Prima della partita si fa avanti e chiede di Reuven, il cui padre insegna nella yeshivah, e lo sfida: lo chiama apikors. Per lui Danny e i suoi sono apikorim, "eretici", gente da combattere perché magari legge Darwin o semplicemente non riconosce l'autorità del Talmud su questioni scientifiche. La partita si trasforma così in una battaglia fra due ragazzi che rappresentano due anime dell'ebraismo: l'apertura al mondo di Reuven vs. la chiusura ortodossa di Danny. I forti battitori chassidim si avventano su ogni palla, ma gli avversari tengono bene il campo, finché Reuven è chiamato a lanciare. Ed è allora che Danny lo colpisce intenzionalmente sul volto con un battuta forte e tesa. Trasportato in ospedale, Reuven rischia di perdere un occhio.

Il romanzo narra così l'evolversi del rapporto fra i due avversari che finiranno col diventare amici. Sullo sfondo c'è la svolgersi della guerra, la caduta di Hitler, la scoperta degli orrori dei campi di sterminio nazisti. E soprattutto la dialettica interna al mondo ebraico, la tensione fra mondo moderno e tradizione, i dibattiti politici che sfoceranno nella fondazione dello Stato di Israele.

The Chosen, notevole per l'introspezione psicologica dei protagonisti -soprattutto di Danny, dilaniato dal rapporto di amore-odio con suo padre- fu il primo (e il miglior) romanzo di Chaim Potok (1929-2002), nato a Buffalo, New York, da una famiglia di ebrei polacchi e poi diventato anch'egli rabbino. Il libro ebbe un grande successo all'epoca, giungendo a vendere quasi quattro milioni di copie; ne fu tratto anche un film diretto da Jeremy Kagan nel 1981 (clicca qui) e una versione teatrale di Aaron Posner andata in scena lo scorso anno a Boston (clicca qui).

Anche se il lungo episodio della partita occupa in realtà soli il primo capitolo del libro, per chi si occupa di baseball e letteratura The Chosen è interessante per almeno due ragioni. C'è, come si è detto, l'assimilazione poco frequente del baseball alla guerra (sono di solito sport come il calcio, il rugby o il football americano a richiamare metafore belliche), motivo che, a quanto ne so, appare per la prima volta in un interessantissimo libro del 1912, The Battle of Base-Ball, di C. H. Claudy, un manuale di gioco ristampato nel 2005 nella McFarland Historical Baseball Library, di cui parleremo presto.

In secondo luogo, a differenza di quanto accade in altri scrittori ebrei, in The Chosen, il baseball non viene visto come il luogo di riscatto sociale di una minoranza etnica, il gioco di cui in cui misurarsi con il mainstream lungo il cammino dell'assimilazione, ma viene presentato come un rituale "interno" al gruppo, una pratica ludica di cui ci si è appropriati e che non presuppone l'esistenza di contatti con l'esterno: non solo tutti i personaggi del romanzo sono ebrei, ma nella voce del narratore e nei dialoghi è assente ogni riferimento al baseball professionistico, a quei giocatori idoli delle folle che accendevano la fantasia di ogni ragazzo, o anche solo alla cultura popolare, al folklore del gioco così presente nella baseball fiction. Siamo dunque di fronte a un romanzo che rappresenta un mondo chiuso e che constata (e forse sancisce) la fine dell'ideologia del melting-pot americano, dell'assimilazione imposta dall'alto su milioni di immigrati di ogni etnia, una prassi e un'ideologia che i discendenti di quegli immigrati, nel riscoprire le proprie radici proprio negli anni Sessanta in cui scrive Potok, stavano incrinando.

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Un vita spezzata in tre: venticinque anni a Roma (lanciatore e ricevitore in serie C), venticinque anni in Spagna (con il Sant Andreu, il Barcelona e il Sabadell, squadra di cui è stato anche tecnico, e come docente di Letteratura Comparata presso le università Autónoma de Barcelona e Extremadura), per approdare poi in terra umbra (come professore associato di Letteratura Spagnola presso l'Università di Perugia). Due grandi passioni: il baseball e la letteratura (se avesse scelto il calcio e l'odontoiatria adesso sarebbe ricco, ma è molto meglio così...).

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