Il baseball e il Melting Pot americano: il caso degli ebrei

Terzo e ultimo appuntamento con "The Celebrant", il romanzo di Eric Greenberg del 1986: lo sguardo di un ragazzo ebreo sul baseball fra integrazione e discriminazione razziale

"Ero scappato al parco con il mio fratello maggiore Eli e lì avevamo scoperto dei diamanti d'argilla incastonati in un immenso campo d'erba, una spianata così vasta e generosa da accogliere una mezza dozzina di partite in svolgimento in quel momento, alcune così distanti da sembrare delle partite in miniatura. Ma dei giocatori in miniatura non avrebbero potuto sorprendermi più di quegli… adulti! Erano degli uomini adulti quelli che stavano giocando! E molti indossavano delle divise complete con delle vistose calze a strisce. In lontananza una mazza colpì una palla, dopo alcuni secondi ne udii il suono. Era un fenomeno entusiasmante, e mi misi a correre avanti e indietro giocando con lo sfasamento temporale fino a che quasi andai a sbattere contro un esterno che era intento a inseguire a tutta velocità una volata alta. Scartai di lato e lui, mentre saltava, mi colpì ancora in volo con la scarpa sulla guancia. Barcollai e caddi a terra. La palla rimbalzò via, e l'uomo che mi aveva scalciato sputò terra dalla bocca, alzò gli occhi e disse: "Ah, merda!!" -le prime parole che mi siamo mai state rivolte su un campo da baseball".

È questo uno dei primi ricordi d'infanzia di Yakov (Jack) Kapinski, il protagonista ebreo di The Celebrant, che arriva a New York dalla Russia con la sua famiglia nel 1889. Nello sguardo del bambino c'è tutto lo stupore dell'immigrante, il riflesso dell'immagine mitica di un'America dove tutto è possibile, il Paese dell'abbondanza, la Terra Promessa dalle risonanze bibliche che ora si presenta inaspettatamente anche come il Paese dove gli adulti giocano! Yakov e la sua famiglia di orefici ebrei scopriranno che l'America è piena di diamanti, di campi preziosi su cui gli uomini giocano come bambini vivendo nello spazio-tempo immobile eppure fluido di una partita di baseball.

Nella storia culturale degli Stati Uniti il baseball è stato sempre la cartina tornasole della discriminazione razziale (pensiamo alle Negro Leagues e all'apartheid sportivo che venne spezzato solo nel 1947 dall'arrivo del grande Jackie Robinson in Major) e allo stesso tempo uno dei veicoli di integrazione delle minoranze nel crogiuolo etnico americano: nel discorso vulgato con cui il baseball si autorappresenta, sul diamante gli uomini non solo tornano bambini, ma rendendo tangibile quell'uguaglianza fra tutti gli esseri umani che nel preambolo della Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti viene proclamata una "self-evident truth", una verità evidente di per sé.

In realtà le cose non stavano proprio così. I movimenti transoceanici fra l'Ottocento e i primi del Novecento riversarono sulle sponde delle Americhe e dell'Australia milioni di uomini e donne, grazie a quella politica di accoglienza di quei Paesi che contraddistinse la cosiddetta fase "liberale" della storia dei fenomeni migratori. In particolare negli Stati Uniti, dopo gli arrivi in massa dall'Irlanda in seguito alle carestie nell'isola degli anni Quaranta del XIX secolo, fu la volta di quasi 30 milioni di europei che dagli anni Ottanta fino alla Prima Guerra Mondiale sbarcarono in America in quella che gli storici chiamano The Great Migration. Il fenomeno si ridusse drasticamente a partire dal 1924 con l'approvazione di una serie di misure restrittive e l'instaurazione di un sistema di quote che penalizzò soprattutto gli arrivi degli italiani (circa quattro milioni fino ad allora) e degli ebrei, in maggior parte provenienti dall'Europa centrale e orientale. Proprio gli ebrei e gli italiani erano più inclini di altri gruppi a stabilirsi in ambienti urbani piuttosto che nelle campagne, in quartieri "autonomi" delle grandi città in cui condurre una vita relativamente isolata e preservare così cultura, lingua e tradizioni. Si formarono così le Little Italies e i nuovi "ghetti" ebraici delle città della East Coast, proprio negli anni e nei luoghi in cui, a partire dalla Guerra Civile, si verificò l'ascesa del baseball e la sua trasformazione da gioco "agrario" a sport professionistico e divertimento di massa. Era dunque naturale che i nuovi immigrati e i loro discendenti vedessero nel baseball un'occasione di contatto e di integrazione nel mainstream, un mezzo per "americanizzarsi" e uscire dalle loro enclave etniche. Sono gli anni in cui si forgia la teoria e la prassi del "crogiulo americano", quel Melting Pot in cui gli europei dovevano fondersi, come in un processo quimico, geneticamente e culturalmente per dar vita ai nuovi americani. Nella realtà ciò non accadde, o per lo meno non accadde nella misura, nei modi e nei tempi previsti, e la società statunitense, nonostante quella volontà di omogeneizzazione, presenta come sappiamo una ricchissima composizione interna rappresentata dai gruppi hyphened, cioè di americani "col trattino": Italian-American, Jewish-American, Irish-American, etc.

È il nascere di questa complessità culturale e il suo intersecarsi con l'evoluzione del baseball dell'epoca a essere ritratti magistralmente nel romanzo di Greenberg. Yakov e i suoi fratelli si americanizzano mischiandosi con gli altri ragazzi sui diamanti. E Yakov si trasforma poco a poco in Jack:

La nostra famiglia rimase a Manhattan. Trovavamo il baseball dappertutto, in ogni sua possibile variante. C'erano dei grandi lotti vuoti fra i due fiumi che ci permettevano di giocarlo con tutte le regole di campo, ma ogni strada e ogni vicolo avevano regole ed eccezioni. Prima attraverso l'imitazione e poi con la pratica imparavamo quel gioco e i modi di fare dei ragazzi che lo giocavano, l'angolazione dei loro berretti, l'intonazione delle loro parolacce e delle grida d'incoraggiamento. Il nostro accento spariva, i nostri passi divenivano veloci e sicuri. Il fatto che fossi mancino -cosa che per i miei genitori era una maledizione diabolica- si rivelò per me un vantaggio sul monte di lancio. Lanciavo da sotto, con le nocche delle mani che sfioravano la terra prima di rilasciare la palla. "Sporcati le nocche di terra, Jackie!", mi gridavano i miei interni – Jackie, non Yakov.

Come abbiamo visto, successivamente Jack rimane affascinato dal gioco e dalla figura di Christy Mathewson, il grande pitcher dei New York Giants. Ma per quanto Yakov Kapinski potesse sentirsi americano, per quanto si presentasse in società troncando il proprio cognome in Kapp, e per quanto persino la sua ditta famigliare cercasse di occultare le proprie radici ebraiche assumendo la dicitura neutra Collegiate Jewelers, il fantasma dell'antisemitismo affiorava continuamente nelle parole di altri giocatori degli stessi Giants, nello sguardo sprezzante di alcuni tifosi: il baseball, di fatto, non era ancora in grado di eliminare non tanto le differenze, quanto le diffidenze fra persone di diversa provenienza.

Al rapporto fra baseball e minoranze etniche negli Stati Uniti dedicheremo i nostri prossimi appuntamenti. E cominceremo proprio dagli ebrei, presentando un affascinante romanzo grafico di qualche anno fa, The Golem's Mighty Swing, di James Sturm.

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Un vita spezzata in tre: venticinque anni a Roma (lanciatore e ricevitore in serie C), venticinque anni in Spagna (con il Sant Andreu, il Barcelona e il Sabadell, squadra di cui è stato anche tecnico, e come docente di Letteratura Comparata presso le università Autónoma de Barcelona e Extremadura), per approdare poi in terra umbra (come professore associato di Letteratura Spagnola presso l'Università di Perugia). Due grandi passioni: il baseball e la letteratura (se avesse scelto il calcio e l'odontoiatria adesso sarebbe ricco, ma è molto meglio così...).

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