Quando la finzione consacra un campione

"The Celebrant" di Eric Greenberg ha per coprotagonista Christy Mathewson, ritrae l'epoca dorata del baseball prima dello scandalo dei Black Sox del 1919. Un esempio di grande letteratura fra storia e baseball fiction

Che cosa consacra definitivamente un giocatore nel cuore dei tifosi e nella storia di uno sport? Per il baseball americano la risposta parrebbe semplice: l'ingresso nella Hall of Fame. Ma se il pubblico di oggi ricorda soprattutto gli eroi più recenti, per i campioni del passato -diciamo per l'epoca precedente all'esplosione di Babe Ruth- i nomi, le cifre, le storie, i profili umani e sportivi tendono a sbiadire e a svanire dalla mente. Invece, per le attuali generazioni la fama postuma del grande Christy Mathewson -uno dei primi giocatori ad entrare nell'Olimpo di Cooperstown, forse il più grande pitcher di tutti i tempi, il mitico detentore di record impossibili, "l'inventore" del fadeaway, il lancio poi conosciuto come screwball, il coautore di vari libri e di una commedia- è affidata soprattutto a un romanzo: The Celebrant, di Eric Rolfe Greenberg, pubblicato nel 1983.    

Riprendendo la tradizionale mescolanza di realtà storica e finzione che abbiamo rintracciato sin dagli esordi della baseball fiction, la trama di The Celebrant incrocia la storia di una famiglia di ebrei russi sbarcata a New York alla fine dell'Ottocento con la traiettoria sportiva di Mathewson nei Giants. Da un lato abbiamo dunque il narratore, Yakov Kapinski, ribattezzato Jack, che lavora come designer nell'oreficeria di famiglia, con i suoi fratelli Eli e Arthur, che si occupano soprattutto della vendita e delle strategie commerciali della ditta, la Kapinski Jewelers; dall'altra seguiamo l'ascesa e il declino di Mathewson attraverso il racconto delle sue partite più importanti: il suo primo no-hitter contro St. Louis del 15 luglio 1901, la vittoria contro Filadelfia nelle World Series del 1905, l'insolito pareggio contro i Cubs del 23 settembre 1908, la sconfitta contro Boston nelle Series del 1912. Queste partite, i cui relativi box score vengono presentati all'inizio di ogni capitolo, scandiscono il tempo della narrazione e accompagnano Jack nel racconto della propria passione per il baseball iniziata da bambino sui campi improvvisati nei lotti vuoti di Manhattan e proseguita poi da adolescente con le partite dilettantistiche dei sandlots.

A suo tempo Jack è stato un buon pitcher, mancino, che, prima di appendere il guantone al chiodo appena ventenne per problemi al braccio, aveva addirittura rifiutato delle proposte per passare al professionismo. È proprio l'impossibilità a giocare sul diamante che lo spinge ad ammirare la stella nascente di Mathewson e a seguirlo sia nelle partite casalinghe al Popo Grounds di New York, sia nelle città visitate da Jack e Eli come agenti commerciali della ditta. Jack rimpiange l'aver dovuto abbandonare il baseball giocato, e non esita a proiettare se stesso nella figura del giovane pitcher dei Giants, che ora vediamo all'ultimo inning del no-hitter contro St. Louis:

Guardavo Mathewson, e in lui vedevo la mia gioventù: era mia la palla veloce che bruciava sul tempo Burkett, era mia curva che il piccolo Jess batteva alta verso il campo esterno e, dopo che la palla era tornata indietro e veniva fatta girare sulle basi, era mio il guanto che la afferrava, mio il braccio che poi lanciava il fastball all'altezza delle ginocchia di Donovan e il lancio che infilava il piatto sull'angolo basso esterno. E ancora era mia la gioventù che obbligava il battitore a sventolare su una curva che finiva a terra: due eliminati, il no-hitter era a portata di mano.

Curva: Schriver la fa passare ed è strike. Il lancio seguente è un fadeaway, Schriver è fuori tempo, sventola e sprizza la palla in foul. Il prima base Ganzel la raccoglie a mani nude e me la passa. Schriver è nervoso: vedo che torce le mani che stringono la mazza, avvita i talloni al suolo.

Spreco un lancio alto, è ball. Prendo il tiro di ritorno del catcher Warner, metto la palla nel guanto, il guanto sotto l'ascella, raccolgo la resina, mi spolvero le mani. Sugli spalti si ode un grido solitario, incomprensibile, poi il silenzio. Mi giro, mi piego, guardo il segnale di Warner. Tocco la pedana col piede. Effettuo il caricamento. Lancio.

È una rimbalzante. Provo a prenderla, passa oltre – ma Strang è lì, la cattura su un rimbalzo alto, attende che Ganzel, il vecchio Ganzel, si piazzi in prima, scaglia un tiro di lato, e la palla scompare nel guanto di Ganzel.

La voce roca della folla si innalza, la panchina dei Giants si svuota, i giocatori corrono verso il mound, tutta la squadra salta per toccare e abbracciare… Mathewson.

Eli, il fratello di Jack, pensa di sfruttare la crescente popolarità del baseball e portare allo stadio i potenziali acquirenti dei gioielli fabbricati dalla Kapinski Jewelers. Non solo: comincia anche a scommettere sul risultato delle partite ed entra in contatto con molti giocatori dei Giants, a cominciare dall'irruento manager McGraw. Invece l'ammirazione che Jack nutre per Mathewson non ha alcun fine pratico. Il grande Mathewson è in sé un modello di virtù, un esempio di tutto ciò che uno sportivo dovrebbe essere dentro e fuori dal campo. È così che il giovane orefice ebreo decide di creare un gioiello che celebri il conseguimento del no-hitter di St. Louis, un anello speciale con smeraldi e rubini che ricordi la forma di un'altra "pietra preziosa", il diamante su cui quella partita si è giocata. Jack farà pervenire l'anello a Mathewson, ma poi rifuggirà dall'incontro diretto col suo idolo. Nel frattempo, Eli intuisce i risvolti commerciali del gesto di suo fratello e propone a McGraw di accettare una sorta di sponsorizzazione dei Giants: in occasione della vittoria nelle World Series del 1905 ogni giocatore della squadra riceverà un anello speciale, l'anello dei Campioni del Mondo. E vari giocatori -ma non Mathewson- diventeranno testimonial nella pubblicità della ditta, che ora ha ampliato le proprie attività e ha "americanizzato" il proprio nome trasformandosi in Collegiate Jewelers.

Storia e finzione si intrecciano dunque in The Celebrant, il primo romanzo a vincere il Casey Award, il premio per il miglior libro sul baseball che indice ogni anno la prestigiosa rivista Spitball Magazine. Sulla base di un accurato lavoro di ricerca sulle fonti, Greenberg fa rivivere i protagonisti del baseball di un secolo fa, le loro strategie sui diamanti nella Dead-Ball Era, le loro peculiarità nella vita privata, l'ambiente di un'epoca, l'euforia di un benessere dilagante in una società che preferiva non vedere il marcio che si annidava nella logica del successo e del denaro. E come, non poteva essere altrimenti, i destini dei fratelli Kapinski e quelli di Mathewson e del baseball americano sprofonderanno nell'incubo dello scandalo dei Black Sox del 1919. È quello che vedremo nel nostro prossimo appuntamento.

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Un vita spezzata in tre: venticinque anni a Roma (lanciatore e ricevitore in serie C), venticinque anni in Spagna (con il Sant Andreu, il Barcelona e il Sabadell, squadra di cui è stato anche tecnico, e come docente di Letteratura Comparata presso le università Autónoma de Barcelona e Extremadura), per approdare poi in terra umbra (come professore associato di Letteratura Spagnola presso l'Università di Perugia). Due grandi passioni: il baseball e la letteratura (se avesse scelto il calcio e l'odontoiatria adesso sarebbe ricco, ma è molto meglio così...).

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