Ricordando Cherubini…

In occasione della sua tragica scomparsa, vi riproponiamo una bella e interessante chiacchierata fatta con Paolo nel 2012 per festeggiare il traguardo dei 60 anni e la lunghissima carriera tra Bollate, Milano, Parma, Novara e Rimini

Milano Baseball '46
Paolo Cherubini con la Supercoppa Europea 1992 vinta dal MIlano a Nettuno
© Milano Baseball '46

INTERVISTA REALIZZATA NEL GIUGNO 2012 (si ringrazia il Milano Baseball per la gentile collaborazione)

Sessant’anni e non sentirli. Paolo Cherubini ha appena passato questo traguardo (è nato il 18 giugno del 1952), ma è ancora lo stesso che festeggiava i 40 anni a Bussum, durante una trasferta vittoriosa di coppa Coppe col Milano nel 1992. Stesso spirito, stessa voglia (se potesse) di giocare, di salire sul monte per quell’eterna sfida con i battitori che forse sogna ancora di notte. Dolce condanna per un eterno ragazzo che ha passato una vita sui diamanti, da Bollate a Milano, da Parma a Firenze, da Novara a Rimini, prima di chiudere la carriera ancora a Milano con le ultime apparizioni in serie A addirittura a 46 anni nel 1998. Una carriera straordinaria quella di Paolo Cherubini, 125 partite vinte in serie A con 1192 strike-out; 152 presenze nel Milano con 53 partite vinte (sesto assoluto nella storia del club dietro Piazzi, Passarotto, Folli, Braga e Consonni), 738,2 riprese, 450 strike out, due coppe Italia, due coppe delle Coppe e una Supercoppa europea vinte con la Mediolanum, che vanno ad aggiungersi ai 2 scudetti e alle 4 coppe dei Campioni vinte con il Parma negli anni Ottanta. Più 25 presenze in nazionale con due titoli europei (nel 1975 e nell’81, a 39 anni) e due mondiali disputati (Giappone 1980 e Cuba 1984).

Paolo, auguri: tanto baseball alle tue spalle, ma fai ancora qualcosa?

Ho fatto il pitching coach con una squadra di serie C, il Rimini ‘86, all’inizio di questa stagione, ma poi ho smesso, non c’era materiale su cui lavorare. Ma più che altro andavo per allenarmi ancora, per tenermi in forma, per vedere se potevo ancora tirare: la palla viaggia ancora, la schiena va giù, il braccio è a posto. Insomma, se qualcuno mi volesse, sarei pronto-

Ma segui ancora il baseball?

Per forza, con mio figlio che gioca nel Rimini, altrimenti avrei già mollato. No, scherzi a parte, non potrei mai disinteressarmi del baseball, in fondo resta sempre il mio sport, uno sport che mi ha dato tanto. Certo, tante volte penso che se invece di fare il nomade, fossi rimasto nella mia città, al Milano o al Bollate, forse sarei ancora lì a insegnare ai giovani. E invece ho faticato tanto per restare sempre ai vertici e ho dovuto girare tanto. Ma vedo che anche adesso gli italiani che vogliono giocare ad alto livello devono adattarsi a cambiare squadra.

E a tuo figlio sconsiglieresti di girare?

No, anzi, mi piacerebbe che avesse esperienze diverse anche lui. Se a Rimini la strada fosse sbarrata, gli direi di provare ad andare in America. In fondo ha forza, talento, mentalità giusta per mettersi alla prova come hanno fatto altri.

Ma Tommaso (che tra l’altro ha appena vinto una gran partita contro lo United subendo solo una valida in 7 inning) è più forte del papà?

Sicuramente. Io alla sua età non avevo la sua velocità. Lui ha sicuramente più fisicità e rispetto a me è più avanti di due spanne. A 21 anni io tiravo solo dritto e prendevo delle gran legnate.

Lui ha avuto un padre da seguire, tu come sei arrivato al baseball?

A Bollate, primi abbi Sessanta: noi bambini non potevamo uscire dal cortile e allora ci si ingegnava con qualsiasi tipo di gioco. Un giorno è arrivato un nostro amico più grande, Massimo Perut, che poi avrebbe giocato nel Bollate, portando dei guanti, delle mazze e delle palline che probabilmente aveva avuto da Gessaghi o da Guido Soldi, le anime del Bollate di allora. E così abbiamo cominciato a giocare. Poi sono andato ai Robins, perchè allora a Bollate c’era una seconda squadra, dove ho trovato Antonio Raggi che ha avuto il grande merito di iniziare ad impostarmi come lanciatore. Da lì il passaggio al Bollate, la serie B e l’esordio in serie A.

Te lo ricordi?

Mi pare contro l’Inter Noalex, con Buschini sul monte di lancio (in realtà aveva esordito la domenica prima nella vittoriosa trasferta del Bollate a Bologna con la Fortitudo, ndr).

Parliamo delle tue squadre: l’inizio a Bollate

E’ la squadra che mi ha dato la prima divisa, quella degli entusiasmi dell’inizio. Un rapporto di odio e amore, perchè all’inizio non riuscivo a giocare, chiuso dai vecchi di allora, da Tino e Chicco Soldi. Poi Somaschini prese la coraggiosa decisione di alternare Bertoni e il sottoscritto sul monte e in prima. E così ho trovato il mio spazio.

Poi il Milano.

Beh, se a Bollate sono cresciuto, il Milano è stato il mio trampolino di lancio. Pensa che nel ‘76 avevo praticamente smesso per il mal di spalla. Ma l’anno dopo mi ha chiamato Gigi cameroni e mi ha detto che mi avevano preso e che avrei ricominciato a giocarfe col Milano. E così è stato, Gigi mi ha dato fiducia, mi ha ricostruito psicologicamente e a poco a poco a Milano ho avuto le maggioro soddisfazioni della mia carriera. Nel ‘79 siamo tornati in serie A nell’80 sono andato ai mondiali di Tokyo. Milano ce l’ho nel cuore, mi spiace solo di abitare così lontano, altrimenti oggi sarei lì a fare qualcosa per questa squadra.

Da Milano a Parma.

Parma mi ha dato le vittorie più prestigiose, due scudetti, quattro coppe dei Campioni, era un contesto con giocatori di altissimo livello tecnico e professionale. E poi c’era Aldo Notari che era il grande regista della squadra formidabile. Milano e Parma, due squadre di grande tradizione, anche se poi Milano si è disgregata. Arrivai a Parma nell’81, assieme a Marco Omiccioli, e lì perfezionai subito il lancio con un pitching coach americano e sono diventato un lanciatore di un certo livello.

Quindi Rimini…

Rimini è stata una scelta obbligata, visto che la vita mi aveva portato a vivere qui. Nel ‘93 ero già in Romagna e ho dovuto lasciare il Milano perché Mazzotti voleva giocatori che potessero allenarsi al Kennedy. Così passai al Novara dove feci un buon campionato che convinse Zangheri a propormi di passare con loro dove rimasi fino al ‘96. Poi però tornai al Milano, che era in A2, allenato da Paolo Re, e diedi una mano come rilievo nel campionato della promozione. E l’anno dopo, in A1, fu invece Mazzotti a darmi ancora l’opportunità di giocare qualche partita verso fine campionato. Il bello però è che io che ho lanciato per tantissimi anni ho chiuso la mia carriera con un turno alla battuta finendo strike out proprio contro Radaelli che è stato per anni mio compagno e che ha vissuto una parabola sportiva simile alla mia.

Qual è stata la tua partita indimenticabile?

Direi che ce ne sono due o tre. Su tutte direi quella lanciata nel ‘91 a Skelleftea, in Svezia, in coppa Coppe nel Milano contro il Parma, una partita vinta contro Lazorko, interrotta per oscurità dopo che io avevo lanciato 11 inning e ripresa il giorno dopo con la vittoria di Radaelli che mi aveva rilevato. Poi metterei la vittoria sull’Olanda nelle finali degli Europei sempre nel ‘91 a Nettuno, mi riceveva Bianchi e vincemmo per manifesta. Certo il ‘91 è stata la mia migliore stagione, avevo raggiunto la piena maturità: avevo già 39 anni!

E la partita da dimenticare?

Ce ne sarebbero tante. Forse una in cui giocavo ancora nel Milano contro il Parma, mi sentivo fortissimo, ma arrivavo da una settimana di antibiotici: credo di non aver fatto un out nella prima ripresa. Poi un’altra nell’82 con il parma agli spring training in Florida, presi una valanga di fuoricampo dalla Miami University.

L’allenatore che ti ha dato di più?

Dal punto di vista affettivo Gigi Cameroni, che mi ha dato la chance per ricominciare. Dal punto di vista professionale Sal Varriale a Parma. Ma anche Bob Powers, sempre a Parma, nell’81: era un ex pitcher con le mie caratteristiche e mi ha insegnato molto.

Il compagno di squadra ideale?

Farei un torto a tanti: a Milano, a Parma, anche a Firenze mi sono trovato benissimo, mi hanno voluto bene e me ne accorgo adesso che tutti mi ricordano con piacere. Forse però direi Bob Roman, che adesso non c’è più, e con cui ho diviso l’appartamento a Parma: un ragazzo eccezionale a cui mi ero affezionato. Ma poi ne direi tanti altri: Fraschetti, Omiccioli, Manzini.

Il tuo idolo da ragazzo?

Una bella domanda. La nostra generazione infatti prendeva molto a modello i giocatori della serie A, cosa che non vedo adesso. Io, per il mio ruolo, stravedevo per Paschetto e Glorioso, due campioni che ti facevano sognare di imitarli. E poi Gigi Cameroni e Bob Gandini: erano i tempi dei derby Europhon-Gbc che per noi erano come la Major league. E poi ti direi Angelo Fontana, un polivalente, grintosissimo, uno che ha giocato con me e ho anche affrontato tante volte, apprezzando sempre la sua cattiveria agonistica.

La squadra in cui ti sarebbe piaciuto giocare?

Il Nettuno, perchè a parte qualche rissa è una squadra che insegna a mettere in campo il giusto agonismo e la grinta. Una squadra che non mollava mai, almeno ai miei tempi.

Proviamo a giocare un po’: facciamo la squadra ideale tra quelli che hanno giocato con te?

Un gruppo di pitcher con Radaelli, Mari, Farina, Paolo Re e il sottoscritto. Catcher Bianchi e Fraschetti: con Luigi Re ho sfiorato una no hit, ma ho giocato poco con lui, come con Omiccioli. In prima Guzman e Dummar, in seconda David Pillow e Cattani, in terza Peonia, Borroni e Guggiana, interbase David Gallino e Vic Luciani con cui ho giocato in nazionale. Esterni ancora Bianchi o Gallusi a sinistra, Paolo Re al centro, Luigi Re o Guerci a destra.

Chi è stato il miglior lanciatore italiano?

Glorioso e Silva dei vecchi tempi, Bertoni e Cossutta dei tempi più recenti.

E il miglior lanciatore straniero?

Dave Farina.

Il battitore da evitare?

Beppe Carelli, il più forte di tutti i tempi, più di Castelli e più di Bianchi. Grande potenza e grande tecnica.

E il battitore straniero?

Funderburk del Rimini. E poi un altro che pochi forse ricordano: Di Pietro, catcher della Juve negli anni Ottanta, ha giocato pochissimo da noi ma ha ha veramente impressionato.

I tre personaggi più significativi del baseball italiano?

Del passato, perchè il presente è quello che è: Gigi Cameroni, Giampiero Faraone e Bruno Beneck.

 Lo sportivo che ti ha attratto di più fuori dal baseball?

Due miti. Un mio coetaneo, Pietro Mennea, e Valentino Rossi.

La squadra del baseball americano?

I New York Yankees per la storia, i Baltimora Orioles e i Los Angeles Dodgers perchè avevano due grandi pitcher che giocavano col mio numero, il 32: Jim Palmer e Sandy Coufax. Ma sopra tutti gli Orioles.

L’evento sportivo che ti ha emozionato di più?

La vittoria dell’Italia ai mondiali di calcio dell’82. Da pelle d’oca.

Grazie Cheruba, eterno teenager.

 

Informazioni su Elia Pagnoni 51 Articoli
Nato a Milano nel 1959, Elia Pagnoni ricopre attualmente il ruolo di vice capo redattore dello sport al quotidiano "Il Giornale", dove lavora sin dal 1986. E' stato autore di due libri sulla storia del baseball milanese.