Leonardo Padura: "Il baseball cubano è in difficoltà"

Il grande romanziere nato a L'Avana 61 anni fa delinea a Baseball.it la traiettoria del baseball nel suo paese, dal rapporto con la cultura delle origini alle attuali difficoltà

Leonardo Padura (L'Avana 1955) è oggi lo scrittore cubano vivente più letto nel mondo, grazie, fra l'altro, a romanzi poilizieschi come Maschere o Paesaggio d'autunno che hanno per protagonista l'investigatore Mario Conde. Ma Padura è anche un appassionato di baseball e un ex-giocatore che da giovane, in quanto mancino, ricopriva i ruoli di prima base e di jardinero, ossia esterno. Quando lo scorso anno è stato insignito del Premio Princesa de Asturias de las Letras, il massimo riconoscimento spagnolo nell'ambito della cultura, lo scrittore si è presentato alla cerimonia della consegna del premio con in mano una pallina da baseball. Lo abbiamo intervistato nei giorni scorsi a Perugia, dove ha partecipato alla terza edizione di Encuentro, l'importante festival dedicato agli scrittori e alle letterature di lingua spagnola.

D. Cominciamo dal premio Princesa de Asturias. Sei andato a ritirarlo tenendo in bella mostra una pallina da baseball. Perché?

R. Credo che ci siano molti modi in cui i Paesi rappresentano se stessi. Ci sono le forme tradizionali, quelle dei simboli della patria: la bandiera, lo scudo… ma si tratta di rappresentazioni trite e ritrite. Per rappresentare Cuba io ho scelto invece la pallina da baseball, perché il baseball è davvero legato alla cultura, o meglio, alla spiritualità cubana, alla maniera di essere e di pensare dei cubani. Il baseball giunse a Cuba dagli Stati Uniti nell'Ottocento. Intorno al 1860 alcuni giovani dell'aristocrazia cubana che avevano studiato a New York e a Filadelfia portarono nell'isola il baseball, uno sport che agì subito come elemento di coesione all'interno della cultura cubana. E siccome veniva dagli Stati Uniti, cioè da un paese moderno e industrializzato, diventò ben presto il simbolo dell'opposizione a quello che invece veniva presentato come un paese arretrato, cioè la Spagna del XIX secolo. Quel primo gruppo di giovani cominciò a giocare, e nella misura in cui il gruppo si andava allargando anche il baseball si "democratizzava": ad iniziare furono i figli dell'aristocrazia, ma cinque anni dopo cominciarono a giocare quelli della borghesia. E pochi anni dopo toccò ai neri. Pensa che il campionato professionistico cubano fu il primo ad accettare giocatori neri già alla fine dell'Ottocento, ben cinquant'anni prima delle Major League statunitensi. Tutto ciò si stava verificando nel momento in cui scoppiava la guerra per l'indipendenza di Cuba dalla Spagna. Il baseball svolse quindi un importante ruolo di coesione sociale: era un'attività in cui i muscoli erano si associavano alla cultura, e che si configurava, inoltre, come uno spazio di incontro per i giovani, uomini e donne, uno spazio in cui c'era posto anche per la musica, perché le partite terminavano con delle verbenas, delle feste popolari con musica all'aperto. Erano gli anni del danzón [il ballo creato negli anni '80 dell'Ottocento a partire dai ritmi della controdanza europea, NdR]. E molto presto cominciarono a spuntare riviste e giornali dedicati al baseball. A Cuba la cultura e il baseball coincidono, sono la stessa cosa, ed è per questo che penso che una pallina da baseball possa rappresentare benissimo l'essenza della cultura cubana.

D. Parliamo del tuo rapporto col baseball. Cosa ha apportato il nostro sport alla tua vita e alla tua scrittura?

R. Da bambino i miei tre punti de riferimento nella vita, oltre a mio padre e a mia madre, furono un cane che dormiva sotto il mio lettino, il quadro della Virgen de la Caridad del Cobre appeso nella stanza dei miei genitori e una pallina da baseball.  Mio padre era un appassionato di baseball e voleva che il suo primo figlio diventasse un giocatore. Non appena imparai a camminare mio padre mi comprò una piccola divisa da gioco, e ho delle foto in cui mi si vede dare i primi passi vestito da giocatore di baseball. Il baseball ce l'ho nel sangue, sin dalla nascita. Cominciai a giocarlo da bambino a Mantilla, un quartiere della periferia dell'Avana in cui vivevamo nella più assoluta libertà, e ho passato tutta l'infanzia e l'adolescenza a giocare a baseball come un mataperros qualsiasi del quartiere -a Cuba chiamiamo mataperros, "ammazzacani", i monelli che gironzolano per strada combinandone di tutti i colori-, divertendomi tantissimo e imparando cosa vuol dire competere. Prendevamo ogni partita davvero sul serio. Poi, negli anni 60 arrivò il trionfo della rivoluzione, si interruppero i rapporti con gli Stati Uniti e cominciò la penuria economica. Era diventato difficilissimo persino trovare una pallina da baseball con cui giocare, le rimediavamo non so dove, e le mazze spezzate le riparavamo con del nastro adesivo e dei chiodini. E non ti dico dei guanti: io giocavo con il guanto di mio padre, un guanto che avrà avuto quarant'anni. Ma era per me una passione, una passione che ancora oggi mi accompagna. In uno dei miei romanzi, al protagonista Mario Conde succede una cosa che capita spesso anche a me: a un incrocio vedo dei ragazzini che giocano al baseball per la strada, mi fermo e li osservo, poi mi metto a giocare anch'io, perché per me il baseball è una maniera di intendere la vita, di prendere parte alla vita. Come scrittore ho dedicato al baseball molte osservazioni, molte riflessioni nei miei romanzi, ma non ho scritto mai un romanzo di baseball. Perché? Non lo so. Hemingway diceva che bisogna scrivere di ciò che si conosce bene. E gli scrittori statunitensi scrivono molti bei romanzi sul baseball. Ma io, che il baseball lo conosco benissimo, ma non sono mai riuscito a scriverci su un romanzo.

D. Ma ci hai mai provato?

R. In realtà non mi è mai venuta in mente una buona idea su cui costruire un romanzo di baseball. Ne parlo in alcune pagine, come nel mio primo romanzo in cui in un capitolo descrivo un'intera partita, dall'inizio alla fine.

D. Veniamo ora al baseball giocato. A Cuba il baseball è in un momento difficile. I migliori giocatori se ne vanno, la nazionale è in crisi da anni, il selezionatore Victor Mesa è messo in discussione…

R. Penso che quello attuale sia un momento davvero critico della storia del baseball a Cuba, e non solo perché i giocatori se ne vanno o perché abbiamo un commissario tecnico sulle cui scelte personalmente non sono d'accordo, ma perché i dirigenti della Federazione Nazionale a me sembrano degli incapaci, oltre ad essere persone di scarsa sensibilità. Pensa che all'ultima fiera del libro dell'Avana stavo presentando un libro sul baseball di un altro scrittore, una raccolta di saggi di Félix Julio Alfonso. I dirigenti della federazione erano anch'essi presenti alla fiera al seguito di un ex-giocatore cubano, Pedro Luis Lazo. Ebbene, quei dirigenti non sono venuti alla presentazione del libro. Ma non è questo il punto. Il problema risiede in un concetto politico e culturale sbagliato che vede nelle Major il nostro nemico, mentre il calcio europeo viene considerato un nostro amico, viene visto come la soluzione per riempire gli spazi della comunicazione sportiva. In questo momento la situazione a Cuba è cambiata, e di molto, e finalmente vengono trasmesse in televisione due partite di Major League alla settimana, ma in differita e in una sintesi con immagini montate. Dunque non vediamo le partite per intero. Così una partita perde interesse, anche perché il risultato è noto in anticipo. Un vero disastro. Nel frattempo la televisione cubana trasmette dalle trenta alle quaranta partite di calcio a settimana. A Cuba ormai i bambini vogliono essere come Messi o Cristiano Ronaldo, e non sanno neppure chi siano i grandi giocatori delle Major League. Se si trasmettessero più partite delle Major, son sicuro che quei bambini conoscerebbero non solo i giocatori statunitensi, ma anche il venezuelano José Altuve, i domenicani José Bautista e Papi Ortiz, il portoricano Yadier Molina, i cubani Kendrys Morales e Aroldis Chapman. Ma ormai il calcio ha occupato violentemente la programmazione sportiva della televisione cubana, e finisce con attrarre molti ragazzi. Giorni fa è venuto a trovarmi un amico dall'estero che mi ha regalato una borsa di palline da baseball dicendomi: "Queste sono per i ragazzini del tuo quartiere". Ai miei tempi, quando io ero bambino, un sacco pieno di palline mi avrebbe reso la persona più felice del mondo. Adesso quel sacco è rimasto a casa mia, chiuso in un armadio, perché nel quartiere non si vedono più ragazzini che giocano a baseball.

D. Credi che stia succedendo qualcosa del genere anche negli altri paesi dei Caraibi, a Portorico, a Santo Domingo?

R. A Cuba la situazione è particolarmente critica, ma si tratta di un fenomeno universale che ha molto a che fare con la struttura stessa del baseball. ll nostro è uno sport peculiare, nato nell'Ottocento, che ha un ritmo che oggi percepiamo come "ottocentesco". Un ritmo lento che a noi che amiamo questo sport sembra assolutamente naturale. Ma, per tornare al discorso precedente, credo che l'apparato delle Major, del business del MLB, sia ormai uno dei grandi nemici della diffusione del baseball, perché ha impedito per anni che i migliori giocatori partecipassero alle competizioni internazionali. A loro importa solo il giocatore e il club che lo compra e lo stipendia. Per farti un esempio, all'ultima Serie del Caribe vari importanti giocatori di Major League erano stati invitati a partecipare all'Homerun Derby, solo a quello. All'ultimo momento i loro club si sono opposti e gliel'hanno vietato dicendo: "No, c'è il rischio che i nostri giocatori si facciano male e noi perderemmo dei soldi". Assurdo: farsi male? In un Homerun derby?!? Penso che in questo senso la FIFA -che, come sappiamo, non è affatto un modello di organizzazione- abbia cercato intelligentemente una proiezione internazionale, abbia capito sin dall'inizio che non solo sono importanti i campionati nazionali, ma che anche le competizioni internazionali per paesi sono fondamentali per la diffusione del calcio. Il baseball invece ha perso terreno per questa pessima politica delle Major di voler proteggere i giocatori e trascurare i tornei internazionali. Tutto sembra indicare che nel prossimo World Baseball Classic ci sarà una maggiore partecipazione di giocatori importanti nelle varie nazionali. Mi auguro che sia così, perché se non c'è una crescita internazionale del nostro sport, se non ci sono delle competizioni internazionali davvero attraenti, allora il destino del baseball è segnato.

D. Hai menzionato la Serie del Caribe. Quest'anno con i Venados di Mazatlán c'era Alex Liddi, uno dei migliori giocatori italiani, con un passato in Major e ora in Messico in Triple A. Come vedete da laggiù il baseball europeo e l'italiano in particolare?

R. Quando gli italiani e gli olandesi partecipavano ai campionati mondiali dilettanti alla fine degli anni 70 e nei primi anni 80, li vedevamo come dei fratelli minori, con la benevolenza di chi osserva dei principianti. Ma ci attendevano delle sorprese: prima scoprimmo che i giapponesi e i coreani giocavano un grande baseball, poi arrivarono gli europei, fondamentalmente gli italiani e gli olandesi, che hanno avuto un ruolo importante per la penetrazione del baseball nel vecchio continente e hanno ormai delle nazionali competitive, con l'Olanda rinforzata anche dalla presenza di giocatori delle Antille. Quando la nazionale olandese vinse gli ultimi campionati mondiali IBAF nel 2011 domandai a un amico: "Mi crederesti se ti dicessi che Cuba ha vinto l'ultimo mondiale di calcio?", e questi mi guardò come dicendo: "Di che sta parlando questo matto?" E poi continuai: "E se ti dicessi che l'Olanda è il campione del mondo di baseball?". Il mio amico mi guardò con la stessa espressione. Eppure era vero. E questo la dice lunga sul livello raggiunto dal baseball europeo e persino da quello giocato in paesi "esotici" come il Brasile, nella cui nazionale fino a poco tempo fa c'erano soprattutto giocatori di origine giapponese.Tutto ciò è molto importante e per questo insisto sul fatto che le Major League dovrebbero avere una visione più aperta del baseball, per salvaguardare e far crescere il nostro sport.

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Un vita spezzata in tre: venticinque anni a Roma (lanciatore e ricevitore in serie C), venticinque anni in Spagna (con il Sant Andreu, il Barcelona e il Sabadell, squadra di cui è stato anche tecnico, e come docente di Letteratura Comparata presso le università Autónoma de Barcelona e Extremadura), per approdare poi in terra umbra (come professore associato di Letteratura Spagnola presso l'Università di Perugia). Due grandi passioni: il baseball e la letteratura (se avesse scelto il calcio e l'odontoiatria adesso sarebbe ricco, ma è molto meglio così...).

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