La rivoluzione che guarda all'Oriente…

Quattro chiacchiere con Domenico Micheli, presidente del Comitato Nazionale Tecnici, alla trentunesima Coach Convention: "Un sogno che perseguivo da sempre. Volevo spiazzare il movimento facendogli conoscere altre culture"

Raccontaci questa Convention. Quest'anno c'è un'impostazione differente dalle precedenti edizioni: non solo suggerimenti tecnici, ma anche un tema centrale, il baseball giapponese, con ospiti di altissimo livello del baseball e del softball e un'attenzione verso la storia e la cultura nipponica in generale.

È un sogno che perseguivo da sempre. Volevo cercare di spiazzare il nostro movimento portandolo a conoscenza di altre culture, di altri modi di giocare a baseball, perché come tecnici dobbiamo essere in grado di affrontare di volta in volta le persone che abbiamo davanti con la mentalità e con i presupposti richiesti in ogni momento. In Giappone, proprio come accade nella poesia degli haiku, i giapponesi colgono quel momento unico, irripetibile che si verifica in ogni situazione. Un tecnico non si deve limitare a portare in campo il proprio bagaglio di conoscenze e a volerlo applicare sempre a tutti nella stessa maniera, ma deve ogni volta cercare di essere più "plastico" possibile. Nella cultura di un tecnico deve esserci una conoscenza profonda, che non è solo tattica, che non è solo fisica e mentale, ma è tutte queste cose messe insieme. E più conoscenze hai, più hai l'opportunità di comportarti nella maniera giusta con il ragazzo che hai di fronte.

Qual è la situazione attuale della formazione dei tecnici, da quelli di base fino ai livelli più alti? Quali sono i problemi da affrontare, le linee da seguire per il futuro?

Sul futuro mi fai una bella domanda. Quando io ho assunto quest'incarico tre anni fa non sapevo bene cosa aspettarmi. Ciò che conosco bene è la società intorno a noi, e mi interessava riuscire a incidere profondamente nei nostri ragazzi. Anni fa, quando facevamo il corso per tecnici di base c'erano delle persone che spiegavano le loro esperienze ad altri che stavano seduti da una parte e assistevano a delle lezioni frontali. Noi abbiamo cercato innanzitutto di rivoluzionare questo sistema perché se è vero che il "sapere" in sé è fondamentale, bisogna anche "saper fare", "saper far fare", "saper essere".  Soprattutto nei corsi per tecnici di base: è inutile insegnare ai nostri ragazzi la metodologia della battuta se prima  non sanno correre, saltare, rotolare… Sono cose per me fondamentali. Cosa abbiamo cambiato nei percorsi della formazione? Nei corsi per tecnici di base non abbiamo quasi più parlato di tecniche, ma si è parlato di metodologie dell'allenamento, dell'insegnamento, in un'impostazione completamente differente. E si è voluto far provare ai tecnici quello che devono fare in campo attraverso la tecnica del role play: ti metti in discussione assieme agli altri che ti osservano.

Passiamo agli step seguenti: il corso da istruttore.

In Italia abbiamo dei tecnici validissimi e io ho voluto affidare a Giulio Montanini per il baseball e a Lilli Rossetti per il softball le responsabilità nazionali di questa qualifica. Ne abbiamo stravolto anche qui l'impostazione: invece di far venire l'americano che ci parlava  della propria esperienza abbiamo affrontato gli argomenti con dei tecnici italiani che hanno tenuto le loro lezioni non più in aula ma in palestra, dove non ci si limitava a spiegare, ma si dimostrava anche. Tutti i partecipanti sono stati chiamati a mettersi in gioco nel role play, e a rotazione ognuno assumeva ruoli differenti: un gruppo faceva, uno dirigeva e un altro osservava. Abbiano voluto che i tecnici apprendessero direttamente, abbiamo evitato di inculcare loro semplicemente delle nozioni.

E per il futuro?

Nella formazione non possiamo più permetterci di bocciare nessuno. Quello dell'esame, così come era stato concepito finora, è un modello che non mi appartiene. Se avrò un secondo mandato farò una cosa differente, perchè credo che tutti i tecnici debbano aver voglia di formarsi e non di essere giudicati. Bisogna offrire loro un percorso per ottenere la qualifica. Seguire un po' il modello dell'università. Abbiamo parlato anche di questo nella Convention.

A livello personale: tu hai lavorato dal basso, dalle periferie romane sin dagli anni 80 con il Rebibbia Woodstock. Cosa ti porti dietro da quell'esperienza?

Sono una persona estremamente curiosa, sono affascinato dai mille aspetti della vita e mi domando sempre se ciò che sto facendo è corretto. Ciò che ho voluto comunicare ai tecnici è che non ci sono certezze, ogni volta occorre rimettersi in discussione, aprire la mente, raccogliere tutte le informazioni possibili per poter crescere come tecnico e come uomo. Pertanto l'esperienza di Rebibbia per me è stata fondamentale. A quel tempo abbiamo occupato uno spazio, fondato una società, sono poi diventato tecnico a livello nazionale, quindi presidente del CNT, cercando sempre di apportare la mia sensibilità per andare oltre l'ostacolo, trovare nuove soluzioni, nuove avventure, perché vorrei che i tecnici fossero così e non si abbarbicassero nelle piccole convinzioni nel loro lavoro. Ogni anno, ogni nuova stagione, ogni nuovo giorno è un giorno differente.

Per finire. Stadi vuoti, numeri in calo, poca visibilità del nostro sport: qual è il problema, quali possono essere le soluzioni?

La mia idea è che bisogna ricominciare dalle scuole, dedicare molta attenzione ai bambini, farli innamorare del nostro gioco. Se noi  portiamo avanti un lavoro preciso, capillare, nelle scuole, con in campo persone preparate, e abbandoniamo questa ricerca del risultato a tutti  costi che un po' ci contraddistingue anche come federazione, potremo ripartire. Ai ragazzi dobbiamo permettere di giocare, di divertirsi,  dobbiamo ridare più forza al gioco. Ecco cosa devono essere disposti a dare i nostri tecnici ai ragazzi. Io lavoro nelle scuole, ho trecento bambini che ogni volta che mi vedono gioiscono per fare baseball, non riesco a capire perché poi quando successivamente arrivano al campo non provano questa gioia. Perché si annoiano? Domandiamocelo. Forse siamo troppo orientati al risultato e poco al gioco? Facciamoli giocare, senza angosce, senza per forza dover farne dei campioni. Ricreiamo questa cultura e forse poi aumenteranno i numeri, e di conseguenza avremo più squadre, più campionati, più persone allo stadio. Il gioco deve ritornare al centro del nostro progetto.

Informazioni su Luigi Giuliani 102 Articoli
Un vita spezzata in tre: venticinque anni a Roma (lanciatore e ricevitore in serie C), venticinque anni in Spagna (con il Sant Andreu, il Barcelona e il Sabadell, squadra di cui è stato anche tecnico, e come docente di Letteratura Comparata presso le università Autónoma de Barcelona e Extremadura), per approdare poi in terra umbra (come professore associato di Letteratura Spagnola presso l'Università di Perugia). Due grandi passioni: il baseball e la letteratura (se avesse scelto il calcio e l'odontoiatria adesso sarebbe ricco, ma è molto meglio così...).

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