Una base rubata contro la stupidità del razzismo

"Il mio nome è Jackie Robinson", il lavoro di Scott Simon sulla vita del primo afroamericano a giocare nelle Major, appassiona come un romanzo. Un grande libro da cui è stato tratto il film "42"

È sufficiente entrare una volta in una libreria di qualsiasi città americana per rendersi conto che la maggioranza dei libri sul baseball -quelli che maggiormente vengono pubblicati e letti- non sono romanzi o racconti, ma lavori di non-fiction: rievocazioni storiche di squadre o campionati, biografie di campioni, profili di allenatori, dirigenti, persino di giornalisti sportivi. Uno dei libri più venduti negli ultimi anni è, per l'appunto, Jackie Robinson and the Integration of Baseball, del giornalista e anchorman radiofonico Scott Simon, pubblicato nel 2002, tradotto in italiano dalla 66thand2nd col titolo Il mio nome è Jackie Robinson (2011) e trasformato l'anno scorso in film da Brian Helgeland col titolo di 42.

Il libro di Simon non solo traccia la traiettoria dell'uomo Jackie Robinson in quanto protagonista-simbolo di quel momento cruciale della storia americana che fu la lotta per l'integrazione razziale, ma sottolinea anche l'eccezionalità dello sportivo, presentandoci al tempo stesso il contesto sociale, culturale e politico in cui si svolse la sua vicenda. Il ritratto di Jackie è a tutto tondo. Vi è in lui l'atleta che segue nello sport il cammino tracciato da suo fratello Mack, arrivato secondo dietro Jesse Owens nei 100 metri alle Olimpiadi di Berlino del 1936 nella famosa finale che fece infuriare Hitler. Vi è  in lui lo studente, il giocatore capace di primeggiare anche nel football, in quella California dove l'attenuata discriminazione razziale -a differenza di quanto succedeva in altre zone del Paese- non gli impedì di iscriversi all'Università. Vi è in lui il sottotenente Robinson, l'ufficiale messo sotto processo quando si rifiutò di accettare la segregazione nell'esercito mentre migliaia di soldati neri combattevano e morivano assieme ai bianchi in Europa e nel Pacifico contro quei regimi dittatoriali che predicavano la supremazia razziale. E vi è il venticinquenne che comprese e accettò con riluttanza prima, con orgoglio poi, il proprio ruolo di strumento per il raggiungimento dell'uguaglianza nel baseball e nella società americana.

Da tempo si erano levate voci che invocavano il superamento di quella color barrier nel baseball che obbligava i neri a giocare esclusivamente nelle Negro Leagues. Sul finire della seconda guerra mondiale i giornali, soprattutto nelle città del Nord-Est, si facevano eco di un dibattito che implicava non solo considerazioni di ordine etico e sociale (ed è significativo che uno dei promotori dell'apertura ai neri fosse Joe Bostic, redattore delle pagine sportive del comunista Harlem People's Voice), ma anche di tipo squisitamente sportivo. In effetti erano molti i giocatori delle Negro Leagues che, se fosse stata data loro l'opportunità, avrebbero sicuramente spopolato nelle Major. Fra tutti, basterà ricordare il mitico Satchel Paige, uno dei più forti pitchers di tutti i tempi, che tuttavia nel 1945 aveva ormai trentanove anni (riuscì a giocare solo nel 1949 coi Cleveland Indians). E dunque dietro la decisione di Branch Rickey, general manager dei Dodgers, di contrattare un giocatore nero per la squadra ci furono non solo dei nobili motivi ma anche una certa dose di calcolo e di interesse. Brooklyn era probabilmente il luogo ideale per tentare il grande esperimento. Da anni i Dodgers non ottenevano buoni risultati sul campo e bisognava rilanciare la squadra. L'Ebbets Field, trentaduemila posti, era un salotto famigliare se comparato con l'immenso Yankee Stadium di Manhattan. I cartelloni pubblicitari sulla recinzione del fuoricampo davano un'idea di quell'ambiente di quartiere: all'esterno destro la pubblicità di una sartoria locale invitava i battitori a centrare il cartello: "Colpiscilo e vincerai un vestito!"; sul tabellone segnapunti la H e la E della scritta al neon della birreria SCHAEFER si accendevano quando c'era un hit o un errore. Il pubblico era sostanzialmente quello multiculturale della città: italiani, ebrei, neri, polacchi, irlandesi e russi, operai, impiegati e commercianti insediati accanto all'isola della Statua della Libertà in un paesaggio urbano privo di grattacieli e costituito da alloggi popolari e casette, negozi, magazzini e fabbriche. Un panorama multicolore dove la convivenza delle culture era la norma.

È per questo ambiente che Branch Rickey scelse Robinson, che giocava con la squadra "nera" dei Kansas City Monarchs, dopo aver scartato giocatori del calibro di Ray Dandridge o di Roy Campanella, il catcher di sangue misto (padre italiano e madre nera) che avrebbe esordito comunque di lì a poco proprio con i Dodgers. E così, dopo un anno di Minors con i Montreal Royals e uno spring training da incubo (in Florida l'ostilità del pubblico e dei giocatori avversari creò seri problemi a Robinson e alla squadra), Jackie esordì il 15 aprile 1947 all'Ebbets Field con la leggendaria casacca numero 42.

A partire da questo momento Scott  Simon sa ricreare con grande efficacia le piccole/grandi battaglie che Jackie dovette affrontare durante le trasferte in città come Saint Louis, Filadelfia o Cincinnati, luoghi dove il razzismo in campo e sugli spalti si traduceva in beanballs (lanci diretti alla testa… e a quell'epoca non c'erano i caschetti da battitore!), insulti irripetibili o vere e proprie minacce di morte, in un Paese dove ancora ai neri era vietato usare gli stessi bagni o anche solo sedere accanto ai bianchi nei ristoranti o negli stadi… quando non venivano uccisi: si calcola che dal 1882 al 1968 gli afroamericani linciati siano stati quasi diecimila. Ma ormai il cammino verso l'integrazione razziale era stato tracciato. Negli anni successivi ci furono certamente altri episodi significativi in questo senso, come quello di cui si rese protagonista la signora Rosa Parks, incarcerata nel 1955 a Montgomery (Alabama) per aver rifiutato di cedere il posto a un bianco su un autobus, in quella che tradizionalmente viene considerata la scintilla che diede l'avvio alle lotte per i diritti civili. Ma Jackie Robinson, il corridore velocissimo capace di schivare insulti e minacce, scivolare imprendibile in seconda, giungere salvo in terza per poi rubare il piatto e segnare un punto contro la stupidità dell'odio razziale, fu davvero il primo simbolo di quelle lotte, un vero eroe per milioni di americani.

Scott Simon non è stato ovviamente l'unico a raccontare la storia di Jackie. Fra i tanti libri sull'argomento ricorderemo Baseball's Great Experiment: Jackie Robinson and His Legacy, di Jules Tygiel (1983), e Jackie Robinson: A Biography, di Arnold Rampersad (1997) . E lo stesso Robinson scrisse due autobiografie a quattro mani: My Own Story (1948) assieme a Windell Smith (il giornalista nero che appare anche nel film di  Helgeland, e I Never Had It Made, con Al Dickett (1972). Ma il libro di Scott si distingue fra tutti non solo per il rigore della documentazione, ma anche per la scorrevolezza della scrittura, la capacità di fissare dialoghi e ritrarre situazioni e ambienti con la naturalezza del grande romanziere.

Nel nostro prossimo appuntamento torneremo a toccare la questione della segregazione razziale nel baseball americano esaminando un'eccezionale romanzo grafico del 2007: Satchel Paige: Striking Out Jim Crow, di James Sturm e Rich Tommaso.

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Un vita spezzata in tre: venticinque anni a Roma (lanciatore e ricevitore in serie C), venticinque anni in Spagna (con il Sant Andreu, il Barcelona e il Sabadell, squadra di cui è stato anche tecnico, e come docente di Letteratura Comparata presso le università Autónoma de Barcelona e Extremadura), per approdare poi in terra umbra (come professore associato di Letteratura Spagnola presso l'Università di Perugia). Due grandi passioni: il baseball e la letteratura (se avesse scelto il calcio e l'odontoiatria adesso sarebbe ricco, ma è molto meglio così...).

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