Un bomber d'altri tempi: i 50 anni di Roberto Bianchi

L'uomo dei record italiani dei fuoricampo, il re delle Triple corone, protagonista con Milano, Bologna, Parma e la Nazionale, festeggia oggi il mezzo secolo: "Penso al mio sport tutti i giorni, ma mi spiace vederlo così in crisi"

Il 2 marzo 1963 nasce a Milano una delle glorie del baseball italiano. Oggi tocca a lui soffiare sulle fatidiche 50 candeline del mezzo secolo. E' considerato il più grande bomber della storia del battiecoori tricolore, almeno stando ai numeri: dal primato dei fuoricampo battuti in campionato (288) e in Nazionale (46) alle due Triple corone conquistate col Bologna nel 1987 e col Milano nel 1992. Senza tralasciare, il record assoluto di punti battuti a casa (1.170) e punti segnati (1.106) in serie A, e ancora la quarta miglior media battuta vita (.383) in campionato dietro Castelli (421) e ai due americani Stimac (399) e Baez (388). Cinquanta anni da festeggiare per Roberto Bianchi, nato nel capoluogo lombardo ma cresciuto a Bologna, che apre il libro dei ricordi in una lunga intervista sul sito ufficiale del Milano Baseball. Ma il popolare "Whitey" tiene anche un occhio critico sul presente, sul baseball di oggi che continua a seguire da grande appassionato.

"Il baseball è la mia vita, ancora oggi è la mia passione. E' una delle prime cose a cui penso ogni mattina e vado a vedermi su Internet che cosa c'è di nuovo. Anche se devo dire che mi mette tristezza leggere e vedere le sofferenze del baseball odierno, soprattutto confrontandolo con il bello dei miei anni, della mia epoca, quando gli stati erano pieni e a Bologna eravamo seguiti come il calcio, che era sprofondato in serie B, o quando ho vissuto gli anni dell'avventura berlusconiana a Milano, tempi in cui si pensava veramente in grande… Mi rattrista vedere che si deve tornare alle due partite non per scelta tecnica, ma per esigenze di budget. D'altra parte come puoi pensare di dare spettacolo in tre gare quando fatichi a portare la gente a vederne una?".

Whitey è già un fiume in piena. "Del baseball di oggi mi piace il Classic, che stiamo per seguire. Forse questo è l'unico rimpianto per quelli della mia generazione, anche se non so se potrebbe equivalere alle soddisfazioni che abbiamo avuto noi nei nostri mondiali. E poi non farei cambio tra i campionati di oggi e quelli dei miei tempi, solo per avere la possibilità di andare ogni quattro anni al Classic, cosa che poi riguarderebbe pochi eletti, mentre allora gli stadi erano pieni per tutti e tutte le settimane. E poi non dimentichiamoci che noi abbiamo avuto la fortuna di andare alle Olimpiadi, e io ne ho fatte due: se per un giocatore di baseball il Classic è veramente il massimo dal punto di vista tecnico e agonistico, per uno sportivo l'emozione di partecipare a un'Olimpiade non ha prezzo, dalla sfilata inaugurale all'atmosfera del villaggio".

E allora come seguirai questo Classic?

"Con curiosità per la nostra nazionale. Anche se il rapporto tra i nostri "italiani" e gli oriundi sarà diverso da una volta, perché è vero che c'erano anche ai miei tempi, ma almeno allora era tutta gente che giocava con noi in campionato. Questi, invece, chi li conosce… Se almeno questa presenza massiccia di professionisti avesse un riscontro sulla propaganda del baseball in Italia, capirei. Ma temo che anche questa volta si perderà un'occasione. Il Classic dovrebbe essere il nostro Si Nazioni, e invece non siamo capaci di venderlo".

Facciamo un passo indietro di quarant'anni: come sei arrivato al baseball?

"Come ci arrivavano tutti. Abitavo vicino al Falchi, a Bologna, andavo a vedere le partite e poi giocavo in cortile con un manico di scopa e una palla da tennis".

Ricordi il tuo debutto in serie A1?

"La partita esatta no (Fortitudo-Juventus 22-0 del 24 aprile dell'81, ndr), ma ricordo che era l'81 e feci 10 homer nella mia prima stagione. Alla fine per premiarmi mi regalarono un paio di guantini. Un dito per fuoricampo…"

Qual è la tua partita indimenticabile?

"Più che altro ti direi due manifestazioni: gli Europei dell'83 a Grosseto e quelli del '91 a Nettuno. Tutti e due validi come qualificazione olimpica. A Grosseto per quel fuoricampo che feci contro l'Olanda in finale davanti a uno stadio strapieno di gente. A Nettuno perché avevamo stravinto le finali con gli olandesi: eravamo una squadra fortissima, non fatta di giovanotti, ma tutti nel pieno della maturità".
E quella da dimenticare?

"I playoff del '91 con il Milano. Anche in quel caso eravamo una squadra fortissima ma andammo a perdere contro il Verona di Kinnunen. Certamente è stata una delle delusioni più grandi della mia carriera".

Qual è l'allenatore a cui devi di più?

"Ne ho avuti tanti, ho imparato da tutti. Per la mia formazione però il più importante è stato Hiro (il giapponese Tsugawa, coach della Fortitudo, ndr) che a Bologna si dedicò totalmente a me, come io mi affidai totalmente a lui. E con la sua mentalità giapponese mi ha insegnato che lo sport è anche sacrificio, applicazione".

Da ragazzo avevi un idolo?

"Come per tutti i ragazzi di Bologna, gli idoli erano Vic e Toro. (Luciani e Rinaldi, ndr). Anche se al di fuori del Bologna c'erano due giocatori che mi piacevano tantissimo e che poi ho avuto la fortuna di conoscere: Orrizzi e Romano. Orrizzi per come riceveva, ovviamente. E Mike perché era fortissimo: ho avuto anche occasione di giocargli contro negli ultimi anni della sua carriera. E lanciava ancora alla grande…"

Il tuo compagno di squadra ideale?

"Ho un rapporto fraterno con Ceccaroli. Abbiamo giocato nella stessa squadra solo a Parma, ma siamo cresciuti assieme nelle varie nazionali. A partire da una trasferta in Belgio con l'Italia juniores nell'80".

Parliamo delle tue squadre. Fondamentalmente tre, direi. Bologna, Milano e Parma. Poi fine carriera a Rimini e Modena.

"Bologna mi ha lasciato tanto. E' la squadra che mi ha lanciato, dove si sono create delle grandi amicizie, tante persone che mi sono rimaste nel cuore. Anche se quando andai via mi accusarono di volerli mollare. Ma non era così, era la società che aveva dei grossi problemi economici e l'offerta di Milano, che comprendeva anche Radaelli e Peonia, faceva comodo anche a loro".

Poi Milano.

"Ed è stata una grande esperienza anche questa. Perché era la prima volta che mi allontanavo da casa, perché l'ambiente era ottimo. E soprattutto c'era un'organizzazione che andava oltre ogni mia aspettativa, soprattutto rispetto ai tempi e al baseball di allora. Ma come tutte le cose belle, poi finiscono…"

Quindi Parma

"Un'esperienza positiva, almeno inizialmente. Poi se ne andò Donzelli e la squadra si sfasciò. Io sinceramente non avevo particolari legami con la società e così me ne andai a Modena. Ma anche qui dopo un primo anno buono, non finì molto bene".
Hai giocato in quasi tutte le grandi, ma c'è una squadra in cui ti sarebbe piaciuto andare?

"Devo dire che ho avuto la fortuna di giocare nelle squadre che volevo. Anche se mi sarebbe piaciuto molto il Grosseto dei tempi d'oro: ci fu un contatto ma non se ne fece nulla. E poi a Nettuno, per il pubblico, per il fatto di sentirti sempre sotto pressione. Perché lì se giochi bene diventi subito un idolo. Cosa che però in parte ho provato anche a Bologna, nei tempi in cui il calcio andava male e molti venivano al baseball".

Il campo preferito?

"Mi piaceva molto giocare a Grosseto. Non sopportavo Rimini da avversario, perché ai tempi era un campo corto e col Bologna ci abbiamo perso tante partite per dei fly che al Falchi sarebbero stati facili out al volo e invece lì andavano fuori. E così mi è sempre rimasto ostico, anche se mi dicevo: pensa se giocassi qui…"

La trasferta più bella?

"Gli spring training negli Usa. Con i club invece ricordo una bellissima trasferta di coppa in Svezia, a Skelleftea, con il Milano: vincemmo e ci divertimmo alla grande. E un'altra col Parma in Olanda in cui vincemmo la coppa dei Campioni. Con la nazionale, poi, tutte le trasferte erano un divertimento…"

Facciamo una squadra con i migliori compagni che hai avuto?
"Mettiamo in blocco la nazionale del '91: molto forte in tutti i ruoli, avremmo potuto vincere con tutti, anche se allora avevamo poca abitudine a incontrare i pitcher che andavano oltre le 90 miglia. E noi stessi avevamo qualche problema con i lanciatori, bravi, ma ormai un po' avanti con l'età. Mi sarebbe piaciuto vedere quella nazionale con un paio di pitcher come quelli di oggi…. E comunque credo che gente come Gambuti, Carelli, Bagialemani, Mazzieri o Fochi non avrebbe sfigurato in un Classic".

Chi è stato il miglior lanciatore italiano?

"Tanti. Ceccaroli, Cretis, Cabalisti, Radaelli, ma anche Masin che ha lanciato per tantissimi anni".

E quello che ti ha messo più in difficoltà?

"Paradossalmente quelli che conoscevo meglio: Ceccaroli e Radaelli. Con Rada, poi, quando me lo sono ritrovato da avversario dopo tanti anni e sono andato a battere contro di lui, non ci capivo niente: mi veniva da andare a prendere la maschera e la pettorina…"

I lanciatori stranieri che più ti hanno impressionato?

"Olsen, Galasso e Farina, che ho affrontato quando ero giovane. Ma ci metto anche Remmerswaal, per il suo slider da Major league".

Chi è stato il miglior battitore italiano?

 "I numeri direbbero Beppe Carelli, soprattutto per i suoi fuoricampo. Non ho visto molto Castelli, l'ho affrontato solo a fine carriera, ma a Parma era un idolo. E poi non dimenticherei Matteucci, Gambuti e Bagialemani".

E lo straniero?

"Per la costanza nel box direi Greg Zunino: aveva uno stile inguardabile ma era devastante. Ricordo che il primo anno che giocava con noi a Bologna, a tre quarti di campionato batteva ancora 600… Poi un mito come Jim Morrison: quando gli altri non battevano, lui c'era: col Milano ci fece vincere da solo una partita a Rimini contro Falcone. La differenza tra un come lui e noi si vedeva in quelle circostanze".

Parliamo del tuo ruolo: chi è stato il miglior catcher italiano?

"Gambuti. E poi Fraschetti, che dietro il piatto era ottimo. Negli ultimi anni mi è piaciuto molto Angrisano, un catcher meraviglioso e sottovalutato. Il primo anno che arrivò in Italia dall'Argentina l'ho avuto come giocatore allo Junior e lo segnalai subito al Parma, ma non se ne interessarono. Aveva un braccio super, ma evidentemente anche qualcosa che mi sfugge…"

Se ti chiedessi i tre personaggi chiave del baseball italiano.

"Uno sicuramente Bruno Beneck, nel bene e nel male. Tenendo conto che quello che gli venne imputato come male, l'eccesso di oriundi in nazionale, adesso è diventato un bene… Ma dirti tre personaggi faccio proprio fatica. Cameroni l'ho conosciuto quando ero a Milano, gli ho parlato qualche volta, ma prima non sapevo che era stato un grande personaggio. Liddi potrebbe esserlo se lo spingessero di più sui giornali. Ricordo che quando io andai negli Usa la Gazzetta mi mise in prima pagina, anche se sono andato e tornato senza nemmeno giocare. Di lui invece nessuno sa niente…"

Lo sportivo che ti ha sempre affascinato?

"Michael Jordan".

La squadra per cui tifi fuori dal baseball?

"Sono un simpatizzante del Milan".

La squadra del baseball americano?

"Nessuna in particolare. Mi piace chi non vince mai".

L'evento sportivo che ti ha emozionato di più?

"I mondiali di calcio dell'82. Un evento da delirio, anche se poi li abbiamo rivinti. Forse perché eravamo partiti senza speranze. Ma ricordo a Bologna, e credo dappertutto, la gente impazzita per le strade, come se buttassero i soldi dalle finestre. Nel 2006 non ho rivisto quelle scene".

E tra quelli che hai vissuto direttamente?

"Le sfilate alle cerimonie di apertura delle Olimpiadi e la chiamata degli Orioles, anche se poi la federazione di fatto mi bloccò. Soprattutto perché Notari in campo internazionale aveva portato da tre a cinque anni il tempo per riqualificarsi dilettante. E la cosa mi impedì di tentare l'avventura nei pro. Peccato, perché se fossi arrivato dove è Liddi adesso, a quei tempi avremmo avuto ben altra cassa di risonanza. Si poteva provare, ma evidentemente i tempi non erano maturi".

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